La recensione del film Il ponte delle spie

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IL PONTE DELLE SPIE - RECENSIONE

Il ponte delle spie recensione
Recensione

di R. Baldassarre
[Il ponte delle spie recensione] - Un silenzio di tre anni separa Il ponte delle spie da Lincoln. Un triennio silente registicamente, però fecondo e remunerativo a livello produttivo per Steven Spielberg, che l'ha visto per l'ennesima volta sulle vette dei Box Office mondiali con Transformers 4 – L'era dell'estinzione e Jurassic World. Il ritorno alla regia conferma come Spielberg lentamente stia creando, attraverso pregevoli tasselli filmici, una sua ideale storia americana. Opere che non vogliono essere granitici tomi storici, ma rivisitazioni, in chiave cinematografica e personale, di figure e momenti critici degli Stati Uniti. Il ponte delle spie è una magniloquente quanto minimalista pellicola che affronta la Guerra fredda. Un riesame fatto attraverso il suo personale stile, intriso di progressismo e humor affinatosi con il tempo. È proprio l'umorismo che "colora" Il ponte delle spie, trasformando quel grigio lungo periodo in una commedia teatrale (come rilevano anche alcuni personaggi americani del film riguardo alle tattiche russe). Partendo dai veri e delicati fatti che coinvolsero l'avvocato James B. Donovan, la sceneggiatura dei fratelli Coen e del giovane Matt Charman spinge le vicende reali molto più verso l'ironia, proprio per cogliere quell'"idiozia" politica che portava avanti questo insensato braccio di ferro tra gli USA e URSS. È facile vedere come i Coen si sono divertiti a modellare i loro usuali personaggi idioti, che popolano molte loro pellicole, su quelle figure esistite veramente. Però Il ponte delle spie è soprattutto una pellicola da gustare visivamente. Nelle sue immagini, puramente cinematografiche c'è uno Steven Spielberg che sta divenendo sempre più classico. Bridge of Spies sembra una pellicola proveniente dal passato; un'opera realizzata proprio in quel periodo. Nei colori, nell'andatura della trama e in quell'umorismo aguzzo, sembra di scorgere il duo registico Michael Powell ed Emeric Pressburger e, in particolar modo, del loro Duello a Berlino (The Life and Death of Colonel Blimp, 1943). C'è ne Il ponte delle spie il suo conclamato virtuosismo registico ben trattenuto nel classico, un riuscito understated registico, in cui la preziosa ricostruzione storica contiene anche una sottile analisi psicologica dei personaggi e dell'epoca. Spielberg si getta in quella cultura gretta che opprimeva gli Stati Uniti e v'innesta i suoi usuali topoi. James Donovan è l'ennesimo individuo fortemente individualista (e progressista) che si ritrova solo in una situazione più grande di lui (come ad esempio Lincoln o anche Oskar Schindler). Allo stesso tempo l'avvocato Donovan è l'everyman già presente in diverse opere precedenti di Spielberg, e per dar corpo – cinematografico – a tale personaggio è stato giustamente scelto Tom Hanks, che rappresenta, con il suo volto pulito, l'eroe americano proveniente dalla strada. Donovan, anche dopo il riuscito negoziato e gli onori, continua a prendere la metropolitana come un comune cittadino. Il ponte delle spie, seppure con alcuni difetti, rimane una sopraffina opera di regia, corroborata dalla preziosa fotografia di Janusz Kaminski che, seguendo il marchio spielberghiano, inonda di immensi fasci di luce le finestre e i personaggi. Una luce quanto speranzosa e soprannaturale, quanto incombente (le bombe atomiche). (La recensione del film "Il ponte delle spie" è di Roberto Baldassarre)
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