Gli Uccelli di Alfred Hitchcock

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IERI OGGI E...

I SOLITI IGNOTI di Mario Monicelli

I Soliti Ignoti Recensione

di Giuseppe Piscino
Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi film del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per comprendere se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno prese in considerazione solo opere che all'epoca vennero reputate CAPOLAVORI per sviscerare, analizzandone il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali, o ETERNI, anche OGGI e DOMANI.
Quante volte, leggendo una recensione, una descrizione di una pellicola rilevante, se ne sottolinea l'importanza da catalogarla immediatamente nell'Olimpo della settima arte. Quella pellicola è "storia del cinema". Ecco, il film di cui vorrei parlare, raccontare…oltre alla suddetta catalogazione è molto altro. Le materie scolastiche dove annoverarlo, credo ci siano tutte. I soliti ignoti, caposaldo di ogni cinefilo e non, mica è solo storia del cinema, è anche geografia esistenziale di un gruppo di ladruncoli, ritrovatosi nella capitale d'Italia per vie traverse. E' arte allo stato puro. E' lingua straniera, in questo caso i vari dialetti parlati dai personaggi…E' italiano, è letteratura all'ennesima potenza, con un'attenzione che spazia dal gergo della criminalità, cui appartengono quasi tutti i protagonisti del film ai soprannomi, scolpiti nella roccia del tempo. E' religione, sorta di timbro sacro su ciò che sarà il cinema italiano con quel film, la cosiddetta commedia, innanzitutto. E' un film rivoluzionario per l'epoca di uscita, per la scelta degli attori, per il loro impiego. Si pensi, in primis a Vittorio Gassman, allo sconcerto dei produttori quando l'immenso Mario Monicelli lo indicò come uno degli assi portanti del film. Sì, proprio quel Gassman che spaziava dai ruoli drammatici nelle poche pellicole girate, tra cui il must, altro capolavoro del cinema mondiale "Riso amaro", alle rappresentazioni teatrali di Eschilo, Seneca, Shakespeare. Insomma cosa c'entra un attore del genere in un ruolo "leggero", nella parte di un pugile spavaldo ed eternamente al tappeto sul ring. E' lui, il suo sguardo spaesato, poi sfrontato, il suo incedere dinoccolato a fornire un tassello perfettamente intersecante con gli altri nel puzzle di una sceneggiatura perfetta. E' lui, Peppe "er pantera", il bello del gruppo, che annovera "Ferribotte", il siciliano Tiberio Murgia, il mitico "Capannelle", un soprannome, un programma, dalla fame atavica e disperata (grandiosa la scena in cui mangia la pappa del figlio di Tiberio, il fotografo interpretato da un Mastroianni in stato di grazia) ed infine, un altro grande attore del cinema italiano, spesso non citato a posteriori, ma capace di toccare vette assolute, il Renato Salvatori di tante pellicole bellissime. Attorno alla banda, impegnata nel colpo al Banco dei pegni, con relativo scassinamento della "comare", la cassaforte, ruotano attori ed attrici alle prime armi e non, tutti al di sopra di uno standard d recitativo eccelso, da Memmo Carotenuto alle giovanissime Claudia Cardinale e Carla Gravina. E poi c'è il suggello di classe, c'è la vetta della recitazione, in quel periodo e non solo (e quando si parla di grandi attori del cinema italiano, non si guarda mai a lui, pecca gravissima ndr)…Dante Cruciani: Totò, in qualità di maestro scassinatore. Insomma un cast stratosferico per un racconto che man mano diventa farsa, commedia, dramma, sogno e tanto altro. Mario Monicelli, fino allora, nel 1958 ha già diretto un bel po' di film. Precedentemente alla seconda guerra mondiale, ha lavorato come assistente alla regia in più pellicole. Ha girato quelli che ora si chiamano cortometraggi ed alla fine del conflitto non si è più fermato. Diventa sodale di bei nomi del cinema, da Pietro Germi a Steno e firma pellicole, che sono etichettate come "commedie", ma contenente dosi importanti di dramma puro. Si pensi a "Guardie e ladri" e "Padri e figli", con cui vince il premio alla regia al festival di Berlino. E così, il regista toscano è pronto per iniziare a sfornare capolavori assoluti. Dirige con maestria un cast di giovani che diverranno giganti di lì a poco e conduce lo spettatore lungo una Roma ancora alle prese con la fatica del vivere quotidiano. Non c'è sentore di boom economico, di ripresa nazionale. C'è, invece, un'evidente sottolineatura di un popolo che soffre e si barcamena per trovare la via di uscita ad una realtà non facile. Il tutto condito da una vena comica che ha pochi eguali nel mondo del cinema di tutti i tempi. Gli americani si son messi di buona lena a cercar di demolire il capolavoro monicelliano con il remake "welcome to Collinwood" con Clooney al posto di Totò e nemmeno un fotogramma di quel film può competere con l'originale. Tutti i tasselli al posto giusto, consacrano il film ai posteri. Sceneggiatura, fotografia, recitazione, messa in scena, fanno de "I soliti ignoti" una pietra miliare del cinema mondiale e solo le due scene finali valgono quanto l'opera omnia di tutti registi che in questi anni han vinto il premio Monicelli in quel di Grosseto (Brizzi, Veronesi, Verdone) e la moglie, giustamente, ha disconosciuto e criticato l'operato degli organizzatori. Repetita iuvant: il film fu uno spartiacque per un cinema italiano che dettava legge nel mondo da una quindicina di anni. Da allora la commedia, rappresentata al cinema, non fu più la stessa. Da allora "I soliti ignoti" entra in una categoria altra. Si pone oltre, come tante storie nostrane di quegli anni magnifici per l'industria cinematografica. Un film da vedere, rivedere ciclicamente. Un film bellissimo. Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI.


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