di A. Bizzotto
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Happy End recensione] - Le tre monocordi riprese eseguite con lo smartphone della tredicenne disillusa, straniante apertura del film, sono preludio di un sarcasmo così freddo e distaccato da far intuire che, probabilmente, un lieto fine (l'happy end del titolo) non arriverà davvero.
Precoce maghetta dell'avvelenamento, come si scoprirà più avanti, la giovane Eve (Fantine Harduin) è una pre-adolescente depressa, che ha già esaurito la gioia di vivere. O non l'ha mai avuta.
Seguirla, per un maestro del calibro di Michael Haneke, significa ancora una volta indagare sulla lacerante tristezza della solitudine. Che in Happy end, però, si allarga ed espande a livello macro-sociale.
Quando la ragazzina torna ad abitare nel lussuosissimo appartamento che il padre divide con la sorella e l'anziano genitore, si trova a fare i conti (e non per la prima volta, capiamo) con un mondo asettico. Suo padre (Mathieu Kassovitz), medico di successo risposatosi e con un nuovo bebè appena arrivato, scambia messaggi sconci via web con la sua nuova amante e, pur provando a starle vicino, si rivela piuttosto imbranato nel trattare i sentimenti di una tredicenne. La zia (Isabelle Huppert) è una manager di ghiaccio, fidanzata (per amore?) a un pezzo grosso della finanza inglese (Toby Jones) alle prese con il disagio sociale del figlio (Franz Rogowski) e i problemi dell'azienda edile di famiglia. Il nonno (Jean-Louis Trintignant), probabile artefice della fortuna familiare, teme il declino della propria salute fisica e mentale, e vorrebbe farla finita.
Lo spaccato di Haneke getta la luce su un regime anaffettivo di sottile, allucinata spietatezza. Nemmeno le buone intenzioni salvano i suoi personaggi da una figura meschina, ai limiti del ridicolo.
Lo stile del regista è quello che abbiamo imparato a conoscere – duro, lucido, poco incline al virtuosismo, almeno in apparenza. E per il nucleo familiare altoborghese e i suoi membri, in definitiva, non c'è speranza, né pietà.
È un peccato che il gioco di Haneke inizi a perdere (almeno in parte) di efficacia. I tempi di Niente da nascondere, che valse al maestro la palma a Cannes come miglior regista, sembrano lontani. Perché Happy end, nonostante le ottime premesse e l'ambizione sociologica, non riesce a dare spessore ai ritratti che disegna così impietosamente. E nel tentativo di dare corpo alla cecità contemporanea che tutti affligge, quel guardarsi intorno senza vedere davvero nel baluginare di troppi stimoli e troppe informazioni, finisce per raffreddare eccessivamente anche il suo sguardo, svuotandolo. La narrazione è sconnessa, troppo distaccata, e l'utilità di alcune sequenze si perde, minando la compattezza del risultato.
In qualche momento il guizzo del genio torna a brillare, come nel tagliente dialogo fra nonno e nipotina, franco e diretto. Ma l'occhio di Haneke, qui, arriva a mixare sarcasmo, disillusione, condanna in una contemplazione troppo spesso inerte, il cui effetto caricaturale qua e là pare accidentale, non voluto, e per questo stonato.
L'unica trovata davvero efficace, così, resta forse quella di fingere di cedere alla giovanissima delinquentella sui generis il ruolo di regista, con quel prologo e quel finale ripresi da lei. Non solo critica alla post-modernità che spettacolarizza anche il privato attraverso i cosiddetti user generated contents, ma anche feroce allegoria dell'occhio dei figli che spia le debolezze dei padri. E che a volte può arrivare a ucciderli, dentro o fuor di metafora.
(La recensione del film "
Happy End" è di
Alessandro Bizzotto)
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