La recensione del film Freaks Out

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FREAKS OUT - RECENSIONE

Freaks Out recensione
Recensione

di Giulia Mariani
[Freaks Out recensione] - Sono in mezzo a noi, hanno poteri e capacità sovrumane, ma si nascondono. Costretti a celare la propria identità, per paura di un rifiuto o di essere considerati "fenomeni da baraccone", vagano nel mondo, soli, alla ricerca della propria storia. Sono i freaks, i diversi. Ed è proprio la paura del diverso – e il conseguente odio cieco - che ha dato vita a una delle pagine più buie della storia dell'umanità. "Non sono un animale. Sono un essere umano" urlava John Merrick – alias l'Uomo Elefante (John Hurt) – il personaggio dell'omonimo film concepito dalla brillante mente del visionario regista David Lynch. Ed è proprio a quest'ultimo, senza ombra di dubbio, a cui Mainetti si è ispirato per i suoi freaks. "Signore e signori, l'immaginazione diventa realtà. E niente è come sembra". La pellicola inizia in un tendone del circo, dove quattro individui – guidati dal padrone Israel (Giorgio Tirabassi) - prendono parte a una dimostrazione delle proprie abilità, di fronte a un pubblico variopinto: sono l'albino Cencio (Pietro Castellitto), l'uomo peloso – e realizzato sulle fattezze di Chuwbecca di Guerre Stellari - Fulvio (Claudio Santamaria), la ragazza elettrica Matilde (Aurora Giovinazzo) e l'uomo magnetico Mario (Giancarlo Martini). Sembrerebbe proprio l'inizio di una fiaba, ma in questo mondo descritto da Mainetti non c'è (quasi) mai abbastanza spazio per sognare. L'idillio iniziale, infatti, viene subito turbato da un'esplosione sorda, che mette a tacere qualsiasi sogno o speranza, catapultando bruscamente lo spettatore in una Roma bombardata, violentata dall'irrazionale follia nazista. I quattro, dopo aver perso ogni traccia di Israel, si mettono alla sua ricerca, inconsapevoli che qualcuno stia già studiando ogni loro mossa. Gabriele Mainetti torna alla regia per la seconda volta, dopo aver dato una nuova dignità al genere supereroistico tutto all'italiana con il suo lavoro d'esordio del 2015, Lo chiamavano Jeeg Robot, divenuto cult ancor prima che lo stesso Mainetti potesse accorgersene. Ancora una volta, il regista romano concepisce una pellicola che è un omaggio alla Settima arte, un vaso di Pandora pronto a schiudersi e a tirar fuori i topoi dei maggiori capolavori della cinematografia mondiale. "In Freaks out – conferma lo stesso Mainetti – c'è tutto il mio amore per il cinema": sono molti, infatti, gli omaggi cinefili che si evidenziano in questa nuova produzione, sia dal punto di vista contenutistico che formale. Lo stile di Tarantino, su tutti, è percepibile nella scelta – già ampiamente sperimentata in Bastardi senza gloria - di plasmare un universo ucronico, in cui la storia può intraprendere un corso del tutto diverso e inaspettato. Inoltre, alcune scene splatter – che si possono definire "pulp", senza esitazione alcuna – sono propriamente appartenenti all'universo di Tarantino, sebbene qui vengano saggiamente rielaborate e applicate a una pellicola che si pone come un'alternanza fra poesia e crudeltà, in quello che lo stesso Mainetti ha definito un "realismo magico". Ma è sicuramente la lezione impartita da Steven Spielberg, regista profondamente amato da Mainetti, che aleggia nell'opera del regista romano: i nazisti abilmente delineati ricordano quelli di Schindler's list, mentre la scena del bacio fra Cencio e Matilde sparati nel cielo dal cannone, rischiarati solo dal bagliore argento della luna piena, ha fatto sussultare di gioia i cuori di tutti coloro che sono cresciuti sognando insieme a Elliot (Henry Thomas, E.T. L'extra-terreste) e al suo amico alieno dagli occhioni azzurri. Ma non mancano, ovviamente, omaggi alla cinematografia nostrana, con citazioni tratte specialmente da Roberto Rossellini (Roma città aperta) e dalle patinatissime pellicole, conosciute altresì come spaghetti-western, di Sergio Leone. Mainetti concepisce un'opera impeccabile su ogni fronte, dalla fotografia alla sceneggiatura, dalla scelta del cast alla colonna sonora. Quest'ultima, in particolare, grazie ad alcune scelte anacronistiche (Creep dei Radiohead suonata nel 1943 fa alquanto sorridere), pone la ciliegina sulla torta di una pellicola che è già formalmente perfetta, tanto da essersi aggiudicata il Leoncino d'oro al 78esimo Festival del Cinema di Venezia. Freaks out, in conclusione, è sì un film di denuncia, ma è soprattutto un percorso di crescita, un viaggio di formazione che vede maturare non solo le consapevolezze dei protagonisti, ma anche e soprattutto quelle dello spettatore. Perché la consapevolezza finale, quando non si riesce a distogliere lo sguardo dai titoli di coda, è che Mainetti ha completamente stravolto il modo di fare e di percepire il cinema, e nulla sarà più come prima. (La recensione del film "Freaks Out" è di Giulia Mariani)
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