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France recensione] - France è una specie di Barbara D' Urso d'oltralpe, regina della televisione considerata un genio perchè in un reportage da una zona di guerra mette in posa i guerriglieri a favore di telecamera, indugia sul primo piano del migrante dal viso triste col tramonto sullo sfondo, intervista con espressione contrita la moglie di un mostro che ha abusato e ucciso una bambina vicina di casa, poi però, fuori onda, sballonzola e sghignazza insensibile della tragedia che si sta consumando attorno a lei. Spettacolarizzazione del dolore, calpestio dei sentimenti, cinismo del piccolo schermo che specula sulle disgrazie altrui, la superficialità del mondo dello spettacolo, la volubilità del pubblico che prima ti incensa poi ti lapida. Tutti la riconoscono, tutti la idolatrano sommergendola di selfie, la povera France, e lei si sollazza facendo la bella figa rampante finchè non investe un povero extracomunitario in motorino, qualcosa dentro di lei si rompe e le viene la lacrima facile. Si ritira dalle scene, va in sanatorio a curarsi dalla depressione, viene sedotta e gabbata ma non abbandonata, compie un ritorno in grande stile ma la lacrima facile non se ne va. Come la cura a volte è peggio del male così, se non si fa attenzione, la critica rischia di essere peggio dell'oggetto criticato. Film a tesi con poche dimostrazioni e molti dogmi che avanza a suon di siparietti preconfezionati, idee preconcette, frammentarie e frammentate, meccanicismi scontati, una messa in scena da farsa amatoriale (si veda il fotomontaggio iniziale con Macron o l'imbarazzante intera sequenza dell'incidente d'auto, muta, con il solo drammatico commento musicale extradiegetico). Forse c'è dell'ironia, se c'è non ce ne siamo accorti. Più evidente è l'esibizione di un intellettualismo che si rivela sterile, il compiacimento per una profondità di pensiero solo presunta che non solo non fornisce risposte ma non pone nemmeno domande, un simulacro sconnesso alla pretenziosità riscontrabile in ogni elemento, dal nome della protagonista, France, nel caso la metonimia in funzione metaforica non risultasse chiara, alle lacrime insistite, ai sorrisi, ai primi piani, all'inutile sguardo finale in macchina. Lea Seydoux non ci è mai piaciuta e continuerà a non piacerci, con quel faccione un po' così e quelle gambotte un po' così. Intorno a lei una schiera di personaggi improbabili, stereotipati e sopra le righe, tutti di rara antipatia: l'assistente che fa mille mossette e mille faccette smanettando al cellulare, il marito scrittore serioso sempre vestito di nero, l'amante farlocco con lo sguardo da triglia. Bruno Dumont, regista di culto in Francia ma solo lì, ha studiato filosofia ma in due ore e un quarto di film il vertice più alto che la sua riflessione riesce a toccare sta nel concetto per cui più è peggio più è meglio. Se così fosse il suo film sarebbe un 10.
(La recensione del film "
France" è di
Mirko Nottoli)
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