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IERI OGGI E...

EDWARD MANI DI FORBICE
di Tim Burton

di Francesca Lenzi
Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi CAPOLAVORI del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per capire se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno presi in esame solo opere che all'epoca venivano considerati CAPOLAVORI per capire, analizzando il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere, circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali o, ETERNI anche OGGI e DOMANI.
Tim Burton rifiuta la richiesta della Warner di girare il seguito di Batman o di Beetlejiuce. Ha un'idea, un'immagine, più che un racconto già definito: un ragazzo con forbici al posto delle mani; era attratto dal tema di una persona che non può toccare niente senza provocarne la rottura o comunque il ferimento. La Warner rifiuta il progetto, non senza la soddisfazione del regista che, sentitosi costretto con la stessa casa di produzione dei film precedenti, è lieto di potersene svincolare. La Twentieth Century Fox accetta l'accordo, lasciando a Burton, e alla co-sceneggiatrice, Caroline Thompson (scrittrice di libri per bambini), la più totale libertà di movimento e scelta, di contenuto e mezzi. Così nasce Edward. Ma chi è Edward? Un giovane, apparentemente normale, se non fosse per il pallore pronunciato, il volto pieno di graffi, un abito alquanto strano, ma soprattutto delle forbici come mani. Scoperto da Peg, viene condotto via, lontano dal proprio spazio familiare; è un insieme di emozioni per il nuovo mondo: sorpresa,
curiosità, gioia, paura, incomprensione. non diversamente dagli abitanti della periferia, che ricevono l'arrivo dell'ospite con l'euforia sovraeccitata della comunità che vede l'intrusione di un elemento estraneo quale circostanza degna di essere vissuta come il più spettacolare degli eventi. La sua natura viene affrontata attraverso due differenti azioni: da una parte, appunto, il divertito e vagamente sadico accoglimento delle sue strane capacità; dall'altro, soprattutto nella figura di Peg, viene considerato oggetto sul quale applicare un processo di "normalizzazione", inevitabilmente fallimentare nel momento in cui l'entusiasmo iniziale per la novità, andrà volgendosi in incomprensioni e incidenti, originate dalla natura dissimile del protagonista. Edward è il "diverso", è l'intruso dei giochi enigmistici, l'elemento di disturbo nella consueta quotidianità della comunità, e per questo, dopo la curiosità, qualora le sue diversità provochino situazioni non di pericolo, ma anche solo di turbamento, fa paura, fa venire allo scoperto la bugiarda idea che sia membro a tutti gli effetti della cittadinanza, rivela la natura egoista e intollerante delle persone. Periferia come metafora dell'uomo, Edward come simbolo della diversità; discordanza sinonimo di interesse, fascino, divertimento, mai di appartenenza. La sequenza del talk show è illuminante. "Se avesse le mani sarebbe normale", "Se fosse stato come gli altri, nessuno avrebbe pensato che Lei è speciale": la dissomiglianza innalza a una posizione di visibilità ma, negativamente, mette nella condizione di minoranza, rischiando di portare all'intolleranza e all'incomunicabilità, sino alla conseguente solitudine. Edward, come alter ego di Tim Burton, capisce come la strada più semplice sia l'indirizzo segnato dalla società, eppure, riconoscendo nella propria natura l'impossibilità ad adeguarsi e, magari, a confondersi nella mediocrità della massa, infine se ne allontana. Il regista trasferisce le proprie insicurezze sullo schermo, offrendoci l'opportunità di riconoscere noi stessi in Edward o, all'opposto, nella collettività, che non condanna inesorabilmente, rispettandone pregi (serenità, attinenza), e comprendendone i limiti (faziosità, necessità di affidarsi a parametri ben delineati, paura e diffidenza per tutto ciò che se ne discosta). Il diverso è l'alieno. Il direttore di banca, rivolgendosi ad Edward: "Niente risparmi, nessuna assicurazione, nessuna garanzia, nessun investimento. Lei potrebbe anche non esistere". Chi non si uniforma non viene riconosciuto nemmeno come individuo, azzerandone in tal modo, le peculiarità caratteriali, e i diritti sociali e politici. La scelta spaziale coincide con la volontà di delineare, nell'immediato, visivamente, lo stato di cose. L'elemento che salta agli occhi è l'utilizzo delle tonalità pastello delle case ("verde schiuma di mare, color carne, burro, azzurrino"), delle auto che escono dai viali, i vestiti dei personaggi: dai più tenui colori alle possibili varianti di cromatismi accesi, soprattutto nella vicina ninfomane Joyce, e alla tendenza nel finale di un abbigliamento prevalentemente rosso e verde intenso. Questo risponde alla precisa esigenza dello scenografo, Welch, di trasmettere, proprio attraverso, l'eterogeneità di colori, uniformità ad ambienti, oggetti, persone. Il tentativo goffo di determinare una personalizzazione, di infondere l'idea di una diversità, almeno apparente, fallisce nel risultato di varietà ripetute, di gradazioni differenti, ma non troppo, in quanto riproposte regolarmente ogni 3/4 case, auto, abitanti, per di più contestualizzati all'interno di rigide linee guida, di sentieri già predisposti (vie, viottoli, geometrie). Secondo una concezione di spazio funzionale alla storia, l'insolita decadenza del giardino, l'aspetto oscuro e insolito del castello, costituiscono, in contrasto con l'imperante contesto pastello, l'unica nota di individualità. Edward è una favola. Ha l'atmosfera misteriosa nei titoli di testa, frammenti di strumenti, macchinari, uomini meccanici, forme particolari, stelle, cuore, cane. che saranno comprese solo alla fine del film. Il racconto prende inizio nella camera di una bambina, sdraiata in un letto troppo grande, all'interno di un ambiente volutamente non proporzionato alle figure umane. La vecchia comincia a narrare la storia di Edward, ed è come sfogliare un libro, leggere le prime righe, e vedere le pagine trasformarsi in immagini. Burton veste i panni dell'affabulatore, del racconta storie, e lo fa magnificamente, dando vita a una fiaba densa di mistero e poesia. Ma Edward mani di forbice è anche, e soprattutto, una storia d'amore. Kim è l'unica ad amare Edward, a non voler tentare di cambiarlo, apprezzandone le qualità. La sequenza più emozionante della pellicola, la danza della giovane sotto la pioggia di ghiaccio, nata dalle "mani" del protagonista, è l'apice dell'amore tra i due, più dell'abbraccio struggente che Kim chiede al ragazzo ("stringimi").lui che non può toccare senza distruggere. e più del primo, e ultimo, "ti amo". La danza sotto l'angelo è il culmine dell'amore: non sono mai stati, né lo saranno mai, così vicini. Edward e Kim, due anime innamorate, divise da pochi metri. separati, ma mai del tutto abbandonati, entrambi consapevoli dell'amore che li lega. Danny Elfman, collaboratore storico di Burton, accompagna con la musica il corso degli eventi: rende udibile l'emozione, l'avvenimento, il trasporto, il turbamento di ogni scena. Funge da metronomo delle immagini: tocchi lievi si alternano a improvvisi tonfi tonali; le ampie note delle sequenze d'amore lasciano il campo a intermezzi frammentati e discontinui. Tim Burton riesce a far convivere, in un equilibrio perfetto, romanticismo e comicità, tristezza e umorismo, poesia e morte, tenendoli stretti in un film che è un turbinio di emozioni, una girandola di impressioni sospese sullo schermo, un capolavoro di eterna memoria. Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI.


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