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Dunkirk recensione] - Dunkirk non è un film di guerra. Forse non è nemmeno un film. Dunkirk è un metronomo, è una sfida contro il tempo, è un trattato pratico e teorico sull'uso del tempo al cinema. Una settimana, un giorno, un' ora. Tutto parimenti intessuto contemporaneamente in 109 minuti di durata. Come è già stato rilevato, Dunkirk è uno dei film più corti di Nolan. Non perché mancasse il materiale anzi, se avesse voluto avrebbe potuto trarne una pellicola di 6 ore ma non è la storia, non è la seconda guerra mondiale, non è l' operazione Dynamo ciò che gli preme raccontare. Bensì, come già in Inception, ma in maniera più radicale e coerente di Inception, come manipolare il tempo in funzione cinematografica, espanderlo, comprimerlo, velocizzarlo e rallentarlo per suscitare nell'audience l'effetto voluto, suspance, attesa, trepidazione, ansia, terrore. Ecco perchè Dunkirk è cinema allo stato puro, immagine e movimento, spettacolo allo stato puro. Nel farlo ridisegna i confini di un genere così decodificato come quello bellico, gettando in un attimo al vento, da Soldato Ryan in poi, anni di crudo realismo, di macchina a spalla, di lenti sporche di fango e sangue, di corpi martoriati e budella riverse sul campo. Sembrava che dà lì non ci si potesse più spostare. Invece Nolan rarefa la narrazione, non si dilunga a raccontare o giustificare gli antefatti, una scritta in sovrimpressione e già ti scaraventa su una spiaggia immensa, immersa in uno scenario surreale (il limbo di Inception?). Di più: scrive una sceneggiatura con due righe di dialoghi (ma poteva risparmiarsi pure quelle), non mostra una goccia di emoglobina, non un arto mozzato, non il volto di un nemico di cui sentiamo solo i proiettili, passa da riprese strettissime, claustrofobiche, attaccate alla schiena del personaggio di turno, a riprese aeree dove il suo sguardo si allarga e quando si allarga lambisce l'infinito, come se usasse un grandangolo di 360°. Questione di tecnica si dirà. Non solo. Questione di occhio, di grandezza, di sensibilità. Senza ricorrere a troppi effetti digitali, le battaglie in volo sono tra le sequenze più spettacolari che ricordiamo di aver visto su grande schermo. E come sempre eccezionale è il lavoro che Nolan fa sulla colonna sonora, un sottofondo continuo e martellante, una cacofonia in cui la musica si fa rumore e il rumore si fa musica, passando impercettibilmente dall'una all'altro, mescolando il suono degli strumenti con lo scoppio delle granate, suoni metallici, stridenti e alienanti con quelli prodotti dall'archetto di un violino. Suono che diventa una componente fondamentale del film, che egli utilizza sia in funzione simbolica, per enfatizzare o sottolineare il senso di certi passaggi, sia in funzione ritmica, per cadenzare e dettare i tempi del racconto che alla stregua del mantice di una fisarmonica si dilata e si contrae a secondo della partitura. Nolan gira come se dirigesse un'orchestra, realizzando con Dunkirk un'opera essenziale e lucida al pari di una dimostrazione matematica alla lavagna. Senza dimenticare l'afflato poetico (ma chi ha detto che la matematica non è poetica?) personificato da un angelo d'acciaio, solitario e imperturbabile (il solito Tom Hardy che recita con gli occhi), che dal cielo sorveglia e protegge e alla fine, dopo aver portato a termine il suo compito, abbassa il carrello e, al tramonto, plana sulla spiaggia, come se l'inferno che era stato fino a pochi minuti prima si fosse tramutato d'incanto nel luogo più paradisiaco della terra.
(La recensione del film "
Dunkirk" è di
Mirko Nottoli)
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