La recensione del film Cosa resta della rivoluzione

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COSA RESTA DELLA RIVOLUZIONE - RECENSIONE

Cosa resta della rivoluzione recensione
Recensione

di R. Ricucci
[Cosa resta della rivoluzione recensione] - Alla sua prima regia cinematografica, Judith Davis, regala una fresca fragranza del mito del Sessantotto quando il desiderio di un'uguaglianza sociale aveva il sapore di una lotta intestina. Judith Davis e Claire Dumas scrivono la sceneggiatura, già copione teatrale e spettacolo del quale, però, non risulta esserne un adattamento per il grande schermo, quanto piuttosto una "riscrittura" più fluida. Fondatrice di un collettivo teatrale, la Davis con i suoi compagni ci raccontano il sogno ancora vivo di "cambiare il mondo": Claire Dumas è Léonor, l'amica d'infanzia; Nadir Legrand è Stéphane, il cognato; Mélanie Bestel è Noutka, la sorella. Angèle (Judith Dumas) nasce troppo tardi per poter partecipare alla rivoluzione sociale degli anni caldi quando si contrastava il consumismo con le teorie maoiste. Eppure, Angèle cerca di essere un'attivista diventando urbanista, insistendo a cercare il suo spazio in una società sempre più borghese e arrendevole, dove la velocità di un pranzo fast food è anche quello di una relazione personale. "Voglio inventare delle idee per cambiare il mondo", così diceva da sempre. Fin da piccola aveva l'aveva visto fare a sua madre, Diane (Mireille Perrier) e a suo padre Simon (Simon Bakhouche). Ma poi si erano arresi e separati. Sua madre si era ritirata in campagna e suo padre viveva di occa-sionali offerte in cambio qualche lavoretto, avendo rifiutato da sempre un impiego, considerato troppo borghese. L'obiettivo di Angèle, unico e sincero, è, adesso, quello di "creare legami inattesi". E mentre cerca di modellare spazi dove la gente può stare insieme, con "area relax accogliente"o "audace spazio verde" non riesce a trovare pace nel mondo: né lavoro, né relazioni sentimentali. Lo spazio del suo cuore è abitato dalla rabbia, di essere stata abbandonata dalla madre, di essere "fuori corso" rispetto alla storia della lotta socialista. Ora, la società è abitata solo da "orchi", come definisce gli interlocutori ai quali sottopone il suo progetto con esito assolutamente negativo. Con Léonor, amica fin dall'infanzia, che si mantiene facendo dei calchi di manine e piedini di bimbi, considerati dai genitori "momenti da immortalare", cerca di attivare un collettivo, troppo simile a un gruppo di autoanalisi, nel quale domanda che si dica una cosa ciascuno per la quale essere certi di lottare. Dal silenzio imbarazzante dei pochi partecipanti emerge l'entusiasmo folkloristico e circense di Said (Malik Zidi) che la sbigottisce prima di attrarla. Ma Said, direttore della scuola dove si tengono le riunioni, si innamora di lei, nel suo modo naïf, colorato e variopinto come una macchietta. Angèle non è ancora pronta per l'amore. Fatica anche con suo padre e con sua sorella Noutka che si fa chiamare Bea per essere più conformista, rinnegando un nome dal sapore gitano. E solo quando l'irruenza estrema di Said fa capolino in casa di suo padre, annunciandosi come suo pretendente, la storia personale, intima di Angèle viene alla luce. Le labbra di suo padre, un pochino brillo rivelano che la madre l'aveva cercata, e che voleva che le sue ragazze vivessero con lei. Ma lui, Simon, lo aveva tenuto nascosto pieno di astio nei confronti di Diane che lo aveva lasciato. Il viaggio iniziatico di Angèle comincia. Deve affrontare sua madre. La raggiunge per il giorno del suo compleanno e mentre attraversa ponti d'acciaio che separano la città dalla campagna pensa alle tradizioni pagane antiche quando lo straniero era il benvenuto nella propria casa perché portatore di luce e si domanda:"Da quanto non considero lo straniero un dio travestito che mi viene incontro?" Raggiunta la madre, genitrice anche del suo pensiero, si mette in ascolto non solo del suo cuore. Ci sono anche Lèonor e Nounou, Noutka. Suo marito Stéphane e Titì, il piccolo figlio. In Vino Veritas recita un grande proverbio latino e ne basta poco a Stéphane per far esplodere la bomba della fatica di reggere il ritmo del mondo di oggi. Dalla metafora sulla calibrazione della muffa per produrre un eccellente Roquefort alla follia delle skill dei top performer, causa del suo fallimento nel lavoro. Così ripropone, totalmente fuori controllo, una scena appena vissuta al lavoro. Non troppo lontano dalla memoria di I Tempi Moderni (1936, Charlie Chaplin), la bella interpretazione di Nadir Legrand ci restituisce l'alienazione dell'uomo di oggi a cui è chiesto di vivere senza scrupoli, anche a danno del prossimo, perché gli anelli deboli, i pesi morti sono da annientare! Disperata è Noutka che rivela il malessere della sua vita, urlando dopo la fuga del marito: "Perché non riusciamo a vivere? Perché litighiamo sempre? Siamo brave persone, lavoriamo duro, cresciamo figli. Che colpa abbiamo?" Al dolore toccato con le proprie mani, Angèle riscopre il bisogno di amore: essere amati e amare. Questa è la vita, questa la lotta impari in un mondo avvilito dal successo e dal denaro. In una commedia riuscita e ben girata, dai colori caldi dei costumi indossati (Marta Rossi), da una fotografia generosa (Émilie Noblet), Judith Davis ci racconta la ricerca dello spazio dell'empatia, della condivisione, della fraternità. Angèle si riconosce bisognosa di affetto e raggiunge Said in piscina, per concedersi una relazione vera. La rivoluzione è avvenuta. "Siamo ebbri d'amore e giovinezza, un lampo negli occhi dei pugni alzati, siamo diavoli, siamo dei…" canta la fine del film (musiche di Julien Omé e Boris Boublil). C'è un mondo da cambiare, c'è una vita da vivere, amando. (La recensione del film "Cosa resta della rivoluzione" è di Rita Ricucci)
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