di R. Baldassarre
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Civiltà Perduta recensione] - Il folgorante e visionario preambolo di The Lost City of Z, che ci getta improvvisamente in un mondo lontano, contiene una promessa. Un impegno che, sfortunatamente, viene conservato però solo a metà. Quella primitiva visione è immediatamente una conferma che Civiltà perduta va apprezzato e seguito per l'elevata ricchezza della fotografia. Un viaggio cinematografico "iniziatico" di 140 minuti composto di pastosa luce, onnipresenti ombre, buio primitivo, e corposi colori eleganti. Il merito di questa mirabile e ricca vasta gamma cromatica è di Darius Khondji, apprezzato direttore della fotografia che aveva già lavorato, con ottimi risultati, nella precedente opera di Gray, The Immigrant. Tolto il lodevole aspetto fotografico, Civiltà perduta si rivela un'opera che non riesce a centrare l'obiettivo. James Gray, accolto con grande plauso come uno dei più interessanti autori della New New Hollywood, dopo aver raccontato storie contemporanee, con Civiltà perduta persegue la strada già tracciata con la precedente opera, C'era una volta a New York. Un secondo e ambizioso tentativo di film in costume con cui Gray tenta nuovamente l'affresco di un'epoca. Due opere che – al momento – raccontano un ambiente storico lontano da quelli raccontati usualmente da Gray, ma che rientrano sempre nella personalissima ricerca stilistica ed elaborazione narrativa. Tratto dall'omonimo libro di David Grann, e adattato dallo stesso Gray, che come di consuetudine scrive egli stesso la sceneggiatura, il corposo libro biografico viene utilizzato dal regista per narrare di nuovo una storia di crudi ambienti e personaggi ostinati nei loro obiettivi. Sullo sfondo del primo Novecento, Gray ama focalizzarsi sui personaggi, con frequenti primi piani per coglierne l'umanità, oppure con piani americani, per cogliere le relazioni, di quiete o di violenza, tra i diversi personaggi. A Gray interessa la dicotomia uomo/ambiente, cioè mostrare come i comportamenti caratteriali siano dettati dall'ambiente che li circonda. Con Civiltà perduta James Gray si avvicina maggiormente a una costruzione, visiva e narrativa, di cinema d'impianto classico, ma questa scelta conferma i limiti di progressione narrativa già riscontrati in The Immigrant. Dietro l'aspetto tecnico, ineccepibile, rimane un racconto che non riesce a coinvolgere e appassionare, e la lunga durata amplifica i difetti della pellicola. In Civiltà perduta torna anche il citazionismo di James Gray verso il cinema italiano. In questo caso, mentre Percy Fawcett e il figlio Jack Fawcett sono in partenza su uno scassato treno brasiliano, mentre salutano gli astanti sulla pensilina, ci sono dei "flash" in cui la macchina da presa carrella a schiaffo all'indietro e si allontano dai familiari di Fawcett. Movimento di macchina proprio come il finale de I vitelloni, quando Moraldo lascia Rimini.
(La recensione del film "
Civiltà Perduta" è di
Roberto Baldassarre)
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