CAPPELLO A CILINDRO di Mark Sandrich
di Nicole Jallin
Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi film del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per comprendere se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno prese in considerazione solo opere che all'epoca vennero reputate CAPOLAVORI per sviscerare, analizzandone il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali, o ETERNI, anche OGGI e DOMANI.
Era il 1935 quando sugli schermi di tutto il mondo veniva proiettato il film che di lì a poco sarebbe diventato uno dei migliori musicals della storia del cinema: Cappello a cilindro.
Era la golden age hollywoodiana. L'epoca d'oro in cui il divismo e la formula dello studio system facevano di Hollywood la capitale mondiale del cinema in grado di realizzare e distribuire film su scala mondiale.
Un rapido accenno al cinema americano classico è necessario per meglio comprendere da quale contesto storico-culturale ed economico derivi il musical e, ovviamente, Cappello a cilindro.
Alla base dello studio system, controllato all'inizio degli anni Trenta dal predominio di alcune case di produzione, le Majors, vi era una formula organizzativa dell'economia cinematografica che prevedeva una perfetta pianificazione industriale incentrata principalmente sulla componente finanziaria legata, sempre, alla partecipazione delle grandi banche. Da questo punto di vista il cinema era considerato principalmente uno strumento per "fare soldi" da sfruttare in tutti i modi possibili. Di conseguenza, non è difficile comprendere come mai il sistema decisionale dipendesse direttamente ed unicamente dallo studio e dal produttore. Ogni scelta, anche quelle di tipo artistico, stilistico, estetico, ecc., cioè non strettamente legate alla strategia economica, veniva presa dal produttore: dalla scelta dei soggetti agli attori, dalla scelta registica al montaggio, dalla distribuzione alla gestione delle sale, tutto dipendeva dal produttore. Così, se da un lato ogni libertà e autonomia registica e autoriale risultavano fortemente limitate, dall'altro, ogni singolo elemento costitutivo del film (il ruolo dei divi, le scenografie, le sceneggiature e le scelte registico-estetiche) venivano stabiliti unicamente in funzione della massimizzazione dei profitti e della vendita concorrenziale dei prodotti al più vasto pubblico possibile.
A partire dagli anni Trenta vi fu, però, un cambiamento in seno alla produzione cinematografica delle case hollwoodinane. Dal controllo di un unico produttore si passa a quello di un "gruppo" di registi, sceneggiatori, attori e tecnici che spostavano l'organizzazione produttiva della Hollywood classica dall'essere central producer system a producer-unit system. Questa novità permise il consolidarsi di équipe specializzate in determinati generi e stili che, in pochissimo tempo, vengono riconosciuti come veri e propri "marchi di fabbrica".
Facciamo un passo in avanti e vediamo in cosa consisteva la strategia produttiva classica, quali erano gli obiettivi e a chi si rivolgevano.
Per evitare di esaurire velocemente la domanda da parte del mercato, il sistema produttivo hollywoodiano non mirava alla realizzazione in serie di film-prodotti cinematografici, ma ambiva piuttosto a rendere ogni film unico e memorabile per gli spettatori americani e mondiali. Per questo era necessario costruire il film su una base narrativa solida e duratura, proprio come quella rappresentata dai grandi modelli di racconto. Proprio su di essi si definiva quella complessa quanto articolata dialettica di standardizzazione e diversificazione che va sotto il nome di genere. I generi avevano il grande vantaggio (commerciale in primo luogo) di appagare e rinnovare il desiderio dello spettatore di farsi raccontare la stessa storia, (forse) diversa nella forma ma identica nella sostanza, più e più volte. Un vantaggio potenzialmente infinito che andava assolutamente sfruttato.
Dunque, mentre la politica dello studio system è standardizzato, i film, o meglio i prodotti, sono invece diversificati a seconda della casa di produzione alla quale appartengono come la RKO con il musical, l'MGM con il fantastico, la Universal con gli horror.
Così, quando lo spettatore vede comparire sullo schermo il logo di uno studio, immediatamente riconosce in esso una firma e, altrettanto immediatamente, costruisce in sé stesso delle aspettative che orienta rispetto a un genere, alla presenza di alcuni divi e alla qualità delle immagini che sta per vedere. Il tutto ancor prima che inizi il film. Inoltre, affinché queste aspettative si trasformino in desiderio perpetuo che, si badi bene, non deve mai essere del tutto soddisfatto, le case di produzione iniziano a legare a sé, con contratti a lungo termine, divi (che spesso interpretano personaggi simili), registi (spesso specializzati in un genere), coreografi, direttori della fotografia, compositori, ecc.
Come accennato poco fa, la RKO si specializza nella produzione del musical e, a partire dagli anni Trenta, attraverso le musiche, le canzoni, le scenografie decisamente decò, e, soprattutto, la danza, rendeva Cappello a cilindro, con la sua "coppia leggendaria" Fred Astaire e Ginger Rogers, il sinonimo dell'intero genere. E, proprio come la maggior parte dei musicals del periodo classico, anche Cappello a cilindro racconta una storia d'amore utilizzando le stesse strategie narrative della commedia. In questo caso, però, la strategia narrativa prevede come formula vincente l'accidentale e canonico scambio di persona con rivelazione finale: solo ed esclusivamente sul finale del film la Rogers scopre che Astaire non è sposato, come invece credeva fin dal principio.
Ma allo spettatore ci vuole molto meno per identificare il corretto genere di appartenenza di Cappello a cilindro. È sufficiente vedere dei piedi che danzano a ritmo di musica accompagnati dai nomi di Fred Astaire e Ginger Rogers per comprendere, già dai titoli di testa, quale tipo di film stiamo per guardare: "sono un musical - pare suggerirci - anzi, per essere precisi, una commedia musicale e, pertanto, appartenendo ad un genere ben definito, mi rivolgo ad un particolare spettatore a cui piace il musical. Se sei quel genere di spettatore, guardami perché non ti deluderò".
A questo punto la domanda che sorge spontanea è: come manterrà la promessa? Come saprà Cappello a cilindro non deludere il suo spettatore?
Innanzitutto rispettando le "norme" o "regole" narrative di genere che, nel caso del musical, costituiscono tre momenti fondamentali: il ragazzo incontra la ragazza, balla con lei e, infine, la conquista. Tuttavia, è concessa una certa libertà d'azione e, come nel caso specifico di Cappello a cilindro, la successione di queste fasi può complicarsi nel corso del film.
Prendiamo subito in esame alcune immagini del film e pensiamo alla scena in cui Astaire sveglia a suon di tip tap la Rogers. Si tratta di una situazione assolutamente comune e possibile (di quelle che possono accadere a chiunque) nella quale una ragazza disturbata dal vicino chiassoso si lamenta non col diretto interessato, perché è una ragazza "perbene" e non sarebbe carino farlo, ma con il responsabile (dell'hotel in questo caso) affinché prenda provvedimenti. Situazione comune e semplicemente risolvibile. Ma se così fosse, se cioè il disturbo cessasse (se semplicemente Astaire smettesse di ballare), non ci sarebbe nessun ragazzo che incontra la ragazza, nessun ballo e nessuna conquista. Non ci sarebbe, cioè, nessuna storia, nessun film, nessun musical. Ovvero: sono passati una manciata di minuti, il film è finito, le luci si accendono e gli spettatori in sala possono alzarsi e andarsene (delusi e probabilmente infuriati per i soldi sprecati del biglietto).
Questo, in sostanza, è proprio quello che non deve mai accadere in un film classico: deludere lo spettatore, ovvero non soddisfare le sue aspettative.
Dunque, come abbiamo visto, già dalle prime sequenze del film la fedeltà dello spettatore è messa a dura prova. E questo dipende dal fatto che già dall'inizio si definisce una forte e fondamentale dialettica, descritta dallo studioso Rick Altman, che vede il piacere del genere da un lato, la correttezza e il rispetto delle norme sociali, dall'altro. La Rogers, infatti, non lamentandosi direttamente con Astaire (che, incurante, non rispetta minimamente le regole del "buon vicinato"), segue la buona condotta sociale allontanandosi, però, da quella di genere che soddisfa lo spettacolare. E come può avvicinarsi alla norma di genere? Sfuggendo, o meglio "trasgredendo", il corretto comportamento da "brava ragazza". E, infatti, è proprio quello che fa subito dopo la telefonata al direttore d'albergo: scorretto comportamento sociale, corretta azione spettacolare. Perché, di fronte alla scelta tra rispetto delle norme sociali o di genere, lo spettatore, senza esitare, risponderebbe: il piacere di genere è sempre preferibile alla correttezza sociale.
Ricordiamo che siamo nel 1935, ovvero in piena diffusione del codice Hays e delle sue regole del "moralmente accettabile", e stiamo parlando di uno spettatore che assegnava all'etica sociale un valore ben diverso da quello odierno. Dunque non è cosa scontata se, verso la fine del film, lo stesso spettatore arrivi addirittura ad accettare e perdonare la "relazione adulterina" di Dale che, appena sposata, accetta di andare in gondola insieme a Jerry. In poche parole, lo spettatore è disposto a tutto purché si mantenga vivo il suo "desiderio proibito", ovvero quello di vedere la Rogers desiderare il proibito.
Siamo partiti da una semplice buona azione compiuta da una brava ragazza in un hotel e siamo giunti a parlare di desideri proibiti e relazioni adultere. Si tratta di una costante progressione di azioni che mantengono viva l'opposizione tra piacere di genere e divieti sociali; una vera e propria escalation narrativa dalla quale dipende l'intera logica di genere: la signorina perbene che, lamentandosi, non rispetta l'etichetta è certamente necessario affinché si metta in moto il desiderio dello spettatore, ma, via via che la storia procede, la sola contrapposizione tra trasgressione e rispetto dell'etica non è più sufficiente a garantirlo. Proprio perché, a questo punto del film, quell'azione si rivela essere nient'altro che un banale e remissibile "peccatuccio".
L'escalation provoca, dunque, una costante domanda da parte dello spettatore che inizia a pretendere di vedere sempre di più: più opposizioni, più trasgressioni, più reazioni, più emozioni. Questa è la logica di genere. Una domanda che, a sua volta, richiede al film una costante risposta diegetico-narrativa, pena la delusione dello spettatore (con tutte le conseguenze già citate). In Cappello a cilindro tale logica porterà i personaggi a compiere azioni sempre più "gravi"; un esempio su tutti è il caso di Dale che inizia da un semplice strappo alle regole e ci conduce fino all'imprudenza, fino a un (più o meno esplicito) adulterio.
Resta ancora un passaggio da chiarire. Nonostante i contrasti e la dialettica tra regole di genere e norme sociali, quasi tutti i film di genere, soprattutto se musical e soprattutto se interpretati dalla coppia Astaire-Rogers, terminano abbandonando di fatto il piacere di genere (la trasgressione delle regole) in favore di una controparte sociale e culturale. Infatti, in Cappello a cilindro, la rivelazione finale che scioglie tutti i malintesi, ovvero che Dale non è, in realtà, sposata con Bedinsky e che, quindi, nella "relazione" con Astaire non c'era nulla di male, perché non si trattava di un vero adulterio, provoca immediatamente nello spettatore una rivalutazione totale dell'intero film. Questo significa che improvvisamente, nelle nostre menti, rivediamo "al contrario" tutto il film con una consapevolezza molto diversa (anzi opposta) rispetto a pochi istanti prima. Solo ora che i fraintendimenti sono stati chiariti (anche se noi spettatori, sin dall'inizio, conoscevamo molto bene la verità!) siamo disposti a perdonare tutte le scorrette azioni morali della Rogers e, di conseguenza, degli altri personaggi perché, in fondo in fondo, si rivelano essere rispettosi delle buone norme sociali e i loro "strappi alle regole", alla fine, sono stati compiuti in buona fede. Niente di irreparabile insomma, si auto-convince lo spettatore.
Ma allora fermiamoci un momento e domandiamoci: non abbiamo desiderato, per tutto il film, il piacere di genere? Non eravamo disposti (fino a poche immagini fa) a perdonare qualsiasi comportamento immorale della brava ragazza, purché rimanesse simulacro delle nostre aspettative?
A queste domande si potrebbe rispondere facendo un piccolo salto "fuori" da Cappello a cilindro, per osservare da vicino la struttura narrativa dei film prodotti nella Hollywood classica. Essi, infatti, sono solitamente presentati come se fossero costruiti sulla base di una catena di eventi causa-effetto. Tuttavia, Cappello a cilindro e, in generale i musicals, non terminano mai nel momento di maggiore distanza dalle norme culturali. Al contrario, più ci si avvicina al finale, più si procede al ristabilirsi dei valori morali.
Questo continuo rincorrersi di azioni sociali e reazioni di genere, in una costante ascesa di tensione, sufficiente - lo abbiamo visto - a compromettere il desiderio dello spettatore verso il piacere di genere, giunge all'apice (sul finale del film) quando si verifica un vero e proprio ribaltamento. Quando, cioè, l'intera logica si rovescia su sé stessa e la dialettica implode: ciò che era il significante contro-culturale prima diventa ora il significato puramente culturale.
È un dialogo scontato quello che, nell'ultima parte del film, permette a Jerry di capire e svelare agli altri personaggi l'enorme malinteso dello "scambio di persona". È tanto scontato nell'economia del film quanto necessario in quella di genere e, persino obbligatorio nell'economia produttiva classica. Infatti, il rovesciamento narrativo, produce piacere in proporzione alla distanza che si deve colmare per ristabilire l'ordine. Altrimenti detto: tanto è maggiore il rischio, tanto sarà maggiore il piacere di ritrovare l'ordine (che, nel nostro caso, consiste nel discolpare gli accusati, risolvere le liti e riavvicinare gli innamorati).
Vediamo allora come Cappello a cilindro arrivi persino a piegare l'intera struttura narrativa al fine di mantenere il piacere di genere quanto più lontano possibile più dalle norme sociali, fino a diventarne antitetico. Immagine dopo immagine la fedeltà dello spettatore va via via consolidandosi provocando, ad ogni azione contrastante il piacere di genere, una pericolosa reazione di calo della fedeltà verso l'intero film. Un caso esemplare è rappresentato (siamo nella sequenza di "Cheek to cheek", che analizzeremo nel dettaglio più avanti) dall'esitazione di Dale di fronte all'invito a ballare proposto da Jerry. Immediatamente lo spettatore collega questo comportamento ad una sola conseguenza: il ragazzo non ballerà con la ragazza e, quindi, non la conquisterà. In sostanza non si verificheranno due delle tre componenti essenziali del musical. Conclusione: le aspettative dello spettatore non verranno rispettate e, tantomeno, appagate.
Ecco allora che l'incoraggiamento dell'amica Madge (non solo di ballare ma, addirittura, di stringersi a Jerry) si traduce, negli occhi del pubblico, come una fortissima azione "proibita" dalle norme sociali esclusivamente perché Dale è convinta che Madge e Jerry siano sposati. Azione, pertanto, che altro non può fare se non accrescere di molto il piacere di genere. E questo per un unico motivo: noi proiettiamo un desiderio proibito (l'adulterio) non solo sul personaggio di Dale ma, soprattutto, sulla figura divistica di Ginger Rogers.
A questo punto, avendo introdotto il personaggio di Madge, è necessario aprire una piccola parentesi relativa proprio ai personaggi secondari. Perché sono loro, in particolare Madge e Orazio, anch'essi "vittime" delle coincidenze e dei malintesi, che, attraverso il rapporto con i protagonisti non solo sostengono e rendono credibile il protrarsi dell'equivoco dall'inizio alla fine del film, ma contribuiscono alla definizione delle loro personalità. Infatti, il carattere energico, sveglio e vivace di Jerry salta subito in primo piano proprio quando si trova a contatto diretto con il suo "opposto", ovvero Orazio. L'impresario e amico "tontolone" che non si rende mai pienamente conto di quel che succede e, di conseguenza, non riesce mai ad "agire" concretamente nella vicenda: «di nuovo un inciampo al motore, dite voi Bates», dirà Madge alla fine del film, togliendo la parola al marito.
Dall'altra parte abbiamo la seria, posata e un po' snob Dale che ben si contrappone alla figura, diametralmente opposta (caratterialmente e fisicamente), di Madge, decisamente più spigliata e disinvolta, che non si sconvolge di nulla, neppure delle relazioni adulterine del marito delle quali non si occupa perché troppo presa dalla vita mondana (le stupite occhiate di Dale all'amica sono molto eloquenti in tal senso).
Una Dale molto diversa da quella che, nella seconda parte del film, si rapporta al caricaturale Bedinsky. Il confronto tra i due personaggi mette in luce il profondo cambiamento e la profonda "modernizzazione" che, rispetto agli esagerati modi romantici e retrò dello stilista, delinea ora una personalità molto meno snob è molto più yankee.
Prendiamo ora in considerazione un concetto: Cappello a cilindro è un film creato "su misura" per la coppia Fred Astaire-Ginger Rogers. È letteralmente "cucito addosso" ai due protagonisti, al fine di valorizzarne le caratteristiche e le capacità artistiche sotto tutti i punti di vista (estetico-stilistico, registico, fotografico, ecc.). E non è certo un caso se questa pellicola (insieme ad alcuni dei film che hanno Astaire e la Rogers come protagonisti) sia diventata simbolo di un nuovo tipo di musical non più costruito su masse danzanti ispirate alle Ziegfeld Follies, ma derivato dalla commedia sofisticata, dove i protagonisti e la loro eleganza erano il fulcro dell'intero film.
La tap dance, ovvero l'anima stessa dell'America yankee e il cuore pulsante dei Vaudeville di Broadway, si trasforma, attraverso il corpo in movimento dei due protagonisti (e, ovviamente, grazie alle coreografie studiate con Hermes Pan), in pura forma di eleganza, musicalità, ritmo e leggerezza. Inoltre, nel caso specifico di Astaire, l'energia della danza si fonde nel corpo dell'interprete-ballerino e crea con lo spazio e l'ambiente in cui si trova una perfetta simbiosi. Astaire non entra semplicemente in contatto con il mondo esterno, ma crea con esso un vero e proprio legame che si manifesta attraverso i passi di danza che egli muove tra e con gli oggetti che lo circondano, lasciandosi ispirare e trasportare.
In ogni numero musicale del film, il ballo costruisce e definisce la scena mentre la macchina da presa che osserva, discreta e silenziosa, l'azione, ponendosi a metà tra gli artisti e lo spettatore, pare quasi stemperarsi nella danza stessa e nei suoi movimenti, creando un'atmosfera delicata e ovattata.
La storia raccontata diventa, così, solo un pretesto per mostrare la loro straordinaria bravura di artisti completi. Di conseguenza, poca importanza viene data alla trama, che risulta semplice e piuttosto puerile o, per riprendere le critiche dell'epoca, risulta essere quasi «niente, solo schermaglie d'amore prive di qualsiasi sensualità sullo sfondo di una Londra fasulla e di una Venezia di cartapesta».
Ma allora per quale motivo Cappello a cilindro è stato (ed è tuttora) considerato uno dei migliori musicals e uno dei migliori rappresentanti del cinema americano classico? Non crediamo sia sufficiente rispondere, riprendendo ancora la critica degli anni Trenta, che «tutto prodigiosamente funzionava alla perfezione» o che, in fondo, sia stata una semplice intesa delle musiche di Berling, con la regia di Sandrich e le coreografie di Hermes Pan, unite nei personaggi di Fred Astaire e Ginger Rogers, frutto di una fortunata «ispirazione giusta».
È chiaro come la complessità degli elementi compositivi delle immagini filmiche (e, dunque, non solo strettamente legati al tipo di storia raccontata) vadano a definirsi all'interno del concetto di canone classico che ha reso questo cinema – come sostiene la teoria di Bordwell, Staiger e Thompson – non solo un periodo storico e culturale, ma una appurata modalità narrativa standardizzata e facilmente identificabile.
Premettendo che non potremo approfondire in questa sede il concetto di canone, poiché non solo troppo vasto ma, soprattutto, in quanto esulerebbe dal nostro oggetto di analisi, affrontare alcune questioni relative allo stile del racconto classico, principalmente dal punto di vista stilistico ed estetico, è ora necessario al fine di analizzare con maggior chiarezza il corpo delle immagini di Cappello a cilindro.
Creare un universo filmico naturale (per quanto fittizio e artificioso) che risultasse continuo e omogeneo (in cui lo spettatore non doveva avvertire il passaggio da un'inquadratura a un'altra) era l'esigenza principale del cinema classico. E la costruzione stilistica, retorica e linguistica di Cappello a cilindro riflette pienamente quest'istanza. La sintassi convenzionale prevedeva una successione di inquadrature (spesso composte da un gioco continuo di campi e controcampi e di soggettive-oggettive) e movimenti di macchina, volte a guidare lo spettatore verso una maggiore identificazione e comprensione degli eventi. «Se dovessi definire lo stile americano in materia di cinema – diceva Erich Rohmer -, avanzerei due termini: efficacia ed eleganza. Scienza dell'efficacia, purezza di linee, economia di mezzi, proprie di tutti i classici».
Teniamo a mente queste parole e ritorniamo al film e, precisamente, alla scena ambientata nella stanza dell'albergo veneziano in cui Dale vuole far credere a Jerry (erroneamente scambiato per Orazio) di aver avuto con lui una relazione l'anno prima. Da un punto di vista tecnico è possibile notare come l'alternanza dei campi totali ai piani ravvicinati sia fondamentale nel definire il "gioco" o, se vogliamo, la "presa in giro" di Dale nei confronti di Jerry e, successivamente, la reazione altrettanto scherzosa seguita dalle avances di Jerry verso Dale. Gli sguardi e gli "ammiccamenti" che i personaggi fanno (di nascosto) allo spettatore acquistano un'importanza fondamentale nella comprensione di questo evento proprio grazie al gioco dei primissimi piani attuato da Sandrich e dal montaggio.
Un altro esempio è quello dell'incipit che affida alla regia un ruolo chiave nella definizione degli ambienti, della situazione e, soprattutto, della contrapposizione tra i personaggi. Analizziamo da vicino la scena: la macchina da presa segue alcuni signori in frac entrare in un palazzo,quando una rapida panoramica a destra si sofferma sul cartello: "Circolo londinese dei Conservatori. Fondato nel 1864". Subito dopo segue un altro cartello che riporta a caratteri cubitali: "SILENZIO. Si prega osservare il silenzio più assoluto nelle sale del circolo". Improvvisamente la musica di sottofondo si ferma, siamo ora dentro al circolo dove diversi signori, muniti di sigaro, monocolo e giornale, occupano poltrone e divanetti nella più totale, immobile e assolutamente noiosa tranquillità. In questa sala il regime del silenzio punisce all'istante il minimo rumore con sguardi lapidari e fulminei gesti disdegnanti. Lo sa bene Jerry che, rivelatosi da dietro l'ampio foglio di giornale, inizia a disturbare volontariamente la lettura degli anziani snob con piccoli e innocui rumori che, alla fine della scena, termineranno con una scarica di colpi di tip tap, come fossero fuochi d'artificio.
In questa scena la sola presenza della macchina da presa, con i suoi movimenti e stacchi, non solo riesce a definire l'ambiente sofisticato e i suoi personaggi, ma introduce e descrive l'iniziale contrapposizione tra Jerry e i signori snob che diventerà parte integrante di tutta la narrazione filmica. Si introduce, cioè, quella dualità di comportamenti e mentalità (riproposta continuamente nel corso del racconto) che Rick Altman ha schematicamente riassunto in coppie oppositive: silenzio-rumore, lavoro-piacere, convenzioni obbligate-assenza di convenzioni, società chiusa-società aperta, vecchia Inghilterra – aggiungiamo noi – e moderna America.
È chiaro allora come la regia possa da sola descrivere anche la personalità di Jerry, che noi ancora non conosciamo, semplicemente mostrandolo a disagio all'interno di quel "sepolcro", come lo chiama Orazio, senza ricorrere all'uso della parola né del ballo, almeno per il momento. Il tipico yankee non può far altro che "fare il verso" alle rigide e, ormai, troppo antiquate regole aristocratiche rappresentate dagli anziani baronetti del circolo.
Più avanti, nel corso del film, sarà il personaggio di Dale la rappresentante delle regole "snob" appena accennate. Anche lei esige il silenzio per poter riposare. Anche lei si scandalizza di fronte ai rumori prodotti dal tip tap. Anche lei appartiene al mondo aristocratico e agiato, sebbene non per sua scelta. Dunque, l'incontro con Jerry-"lo yankee" non può che essere all'insegna dell'opposizione: il ballo contro il sonno-silenzio, il buon costume contro la spavalderia, il rispetto (sempre e comunque) delle "buone" regole contro la spontanea e istintiva trasgressione delle stesse, antico contro moderno, e, di nuovo, il ballo contro il sonno perché sarà proprio con l'energia della danza che Jerry riuscirà a svegliare Dale dal sonno delle consuetudini e delle serietà.
La danza, quindi, si presenta subito come il fulcro centrale attorno al quale ruota tutto il film. Dalla danza si snoda, poco per volta, immagine dopo immagine, una viscerale continuità di passi, dialoghi, canzoni, testi e musiche.
Di fronte a questo naturale "mostrarsi" del ballo alla macchina da presa, Sandrich adotta una linea registica che mette in primo piano la chiarezza, la "trasparenza" e l'immediatezza espressiva. Lo spettatore ha la sensazione che l'obiettivo di Sandrich segua silenziosamente i suoi attori e i loro movimenti, ascoltando attentamente le loro parole e osservando con distacco le loro vicende. La parola "distacco" non deve, però, essere associata alla volontà del regista di riprendere e raccontare con freddo disinteresse la storia. In altre parole, Sandrich non vuole allontanarsi dal proprio film e dai propri personaggi, ma, piuttosto, vuole lasciar liberi gli attori di interpretare i loro personaggi, di esibirsi, di cantare e ballare, tirandosi da parte con discrezione, esaltando, così, le loro capacità e doti artistiche. A questa strategia stilistica fa eco la perfetta integrazione dei numeri musicali con la trama (e, contemporaneamente, l'adattamento della trama ai numeri musicali) che assicura una certa fluidità e armonia di tutti gli elementi compositivi del film. Infatti, come sottolinea lo stesso Mark Sandrich, «tutte le canzoni nascono dalla struttura della scena. Se una qualsiasi avesse dovuto essere eliminata (…), il dialogo avrebbe dovuto essere modificato».
Ripetiamo: "tutte le canzoni nascono dalla struttura della scena". Ed è proprio ciò che accade fin dal primo numero musicale di Jerry. Potremmo azzardare a dire che "No Strings (I'm fancy free)" non ha inizio, non ha un attacco vero e proprio. È, piuttosto, il prosieguo del dialogo tra Jerry e Orazio che dapprima assume un ritmo musicale, dopodiché diventa un numero cantato che senza soluzione di continuità sfuma nel numero danzato. Jerry si muove agilmente e cammina per tutta la stanza dell'hotel londinese, accennando qualche passo di danza, ancor prima che inizi ufficialmente il numero del ballo. I movimenti ritmici nascono improvvisi e spontanei mentre Jerry cammina con le mani in tasca o mentre versa il cocktail. Poi, pian piano, la carica aumenta e Jerry non può far altro che assecondare quell'energia e lasciarsi trasportare: il suono dei claquettes scandisce il rapido e incalzante ritmo del tip tap, mentre le sue mani battono il tempo sui mobili e sugli oggetti cui passa vicino. «Ogni danza - queste le parole di Astaire - deve nascere spontanea da una situazione o da un personaggio, altrimenti non è che del music-hall».
L'improvvisazione sottolineata dallo stesso Astaire, necessaria affinché lo spettatore non percepisca come "finto" e "forzato" il personaggio, da un lato stride fortemente con il contesto caricaturale, dall'altro, però, crea una dialettica, una relazione di contrapposti, che aumenta il valore fantastico dell'atmosfera; dona (paradossalmente) il giusto grado di irrealtà al mondo raccontato. Dunque, è verosimile (sarebbe assurdo il contrario!) che Astaire si metta a danzare e cantare in modo così automatico e spontaneo, e senza particolari sollecitazioni o motivi: «molte volte mi metto a ballare - dice Jerry a Dale -, e non so come questo avvenga». Attraverso i passi di danza il corpo (del personaggio, dell'attore e dell'uomo) conosce il movimento; attraverso il movimento comprende lo spazio e il tempo.
Ora il ballo è iniziato ma Sandrich, per evitare che "No Strings (I'm fancy free)" si riduca a isolato numero musicale fine a sé stesso, e renderlo, invece, parte integrante (anzi, addirittura fondante) del racconto, adotta la strategia del montaggio alternato fra le inquadrature dell'appartamento di Jerry e Orazio e quello sottostante di Dale. Ai passi energici di Jerry seguono i piani ravvicinati del volto di Dale sempre più infastidita dal rumore. Così facendo si dà vita a un circuito dialettico di immagini che culmina con l'irrompere di Dale nelle stanza di Jerry, ovvero il momento in cui incomincia la storia e da cui dipenderanno tutti gli eventi futuri.
«È il montaggio – scrive Andrè Bazin nel suo Qu'est-ce que le cinéma? -, creatore astratto di senso, a mantenere lo spettacolo nella sua irrealtà necessaria». Irrealtà necessaria affinché non si percepisca né la presenza del montaggio, né la presenza del film, che, pertanto, viene definito invisibile.
Spostiamoci adesso verso un'altra sequenza famosissima del film che, da sola, potrebbe racchiudere l'intero significato del film Cappello a cilindro. Una sequenza che traduce in immagini il pieno senso rohmeriano della parola "eleganza" (citata qualche pagina sopra); quella nella quale Ginger Rogers e Fred Astaire mettono in scena uno dei più raffinati pas de deux della storia del cinema. Stiamo parlando, ovviamente, di "Cheek to cheek".
Partendo con un lento movimento in avanti del dolly, la macchina da presa attraversa tutto lo spazio scenico, conducendo (obbligatoriamente) il nostro sguardo verso l'elemento centrale della storia, della scena e dell'inquadratura: la protagonista Ginger Rogers. Poco più tardi, quando entrerà Jerry, la messa a fuoco avrà la stessa funzione di guida del nostro sguardo, concentrando così la nostra attenzione solo ed esclusivamente su di lui. Dunque, tutto procede per ordine: da uno sguardo ampio in cui si definisce la situazione che stiamo vedendo, la macchina da presa procede pian piano verso il centro e focus della scena che coincide proprio con Dale e, successivamente, Jerry.
È interessante notare come questo lento movimento espliciti quella chiarezza compositiva e narrativa tipica del cinema classico hollywoodiano. Chiarezza che deriva anche dalla forte e precisa simmetria interna alle inquadrature che regola sia gli spazi e le scenografie inquadrate, sia la "matematica" disposizione centrale dei personaggi, sia, più tardi, i delicati movimenti di macchina che seguiranno la coreografia di Jerry e Dale. Infatti, proprio quando i due protagonisti iniziano a ballare, spostandosi sulla terrazza esterna, di gusto vagamente arabesco da "Mille e una notte", l'occhio dello spettatore, quasi fosse vittima di un incantesimo, si unisce a quello della macchina da presa e viene letteralmente trasportato nella danza, riuscendo quasi a sentire sulla propria pelle i delicati passi di Fred Astaire e Ginger Rogers.
Dal punto di vista della progressione narrativa notiamo come l'iniziale riluttanza di Dale (ancora ignara della vera identità di Jerry) si sciolga pian piano nelle parole di Jerry che, improvvisamente, si trasformano in canto sulle note della melodia già in atto nell'orchestra. Da questo momento l'iniziale "contrapposizione" tra Jerry e Dale, mantenuta viva per tutto il film dallo scambio d'identità, dai malintesi e dalle coincidenze, si trasforma qui, proprio nella danza, in un equilibrio perfetto. Una simultaneità tale che confonde i movimenti dell'uno in quelli dell'altro come fossero la stessa persona, creando una sola e unica spirale di gesti e sguardi, simbolo dell'unione nascente da una conflitto.
Siamo qui di fronte a quella sensazione, descritta da Bazin, di «un'arte che ha trovato il suo equilibrio perfetto, la sua forma di espressione ideale. (…) In breve, tutti i caratteri della pienezza di un'arte "classica"».
Mantenere quel "perfetto equilibrio" di cui parla il critico francese è un'impresa molto complicata, soprattutto se il film viene girato avendo a disposizione una sola macchina da presa. Montare una sequenza come "Cheek to cheek" con cinque stacchi, spostando la posizione dell'unica macchina da presa in diversi punti, e variandone, di conseguenza, i piani e il fuoco, mantenendo l'indispensabile sensazione di continuità, significava ripetere più e più volte l'intera danza. Fred Astaire e Ginger Rogers, infatti, sono stati obbligati a riprodurre esattamente gli stessi passi, gli stessi movimenti e le stesse espressioni, affinché, tra un'inquadratura e l'altra, non si percepisse mai uno "scarto" ma si mantenesse, invece, la tanto ricercata continuità. Non è difficile allora comprendere come una tale precisione richiedesse uno sforzo non indifferente ai due interpreti (soprattutto per Ginger Rogers che doveva anche "domare" le piume di struzzo del suo abito affinché non dessero fastidio al partner e, soprattutto, rispettassero le stesse posizioni dell'inquadratura precedente).
Lo stesso Fred Astaire sosteneva che riprendere le sequenze di danza con una sola lunga inquadratura fosse l'unico modo per "riprodurre fedelmente" quella «resistenza artistica» che i ballerini dovevano sopportare. La straordinaria dote tecnica ed artistica di Fred e Ginger permette loro di nascondere sotto i sorrisi e gli sguardi un lavoro difficile e faticoso, facendolo apparire come naturale e automatico.
Ora però, prima di proseguire e analizzare l'ultima parte della sequenza, spendiamo qualche parola sull'importanza del costume che la Rogers indossa in questa occasione. Perché, nonostante possa sembrare scontato e banale, l'eleganza di scena dipende anche dalla presenza di questo sontuoso abito (disegnato dalla stessa Rogers in base alla sua personale idea di "abito dei sogni"). Il movimento delle sue piume che si prolunga, per qualche frazione di secondo, oltre quello del corpo stesso, crea, ad ogni passo, un raffinato disegno di linee che tagliano con la stessa precisione l'aria e il marmo del pavimento. Quasi avesse una propria personalità e una propria autonomia, il costume veste la coreografia e, fondendosi perfettamente con la grazia di Ginger Rogers, dà vita a un'unione armoniosa di corpo e abito, pelle e tessuto.
Passiamo ora agli ultimi istanti della sequenza: Jerry e Dale, terminato il ballo, raggiungono un piccolo balconcino e, osservando un improbabile panorama veneziano (vero e proprio trionfo del falso), iniziano un dialogo. Tralasciando l'oggetto del dialogo, notiamo come, da un punto di vista strettamente estetico e linguistico, la messa in scena dello stesso preveda un evento che il cinema classico, ma in generale il cinema occidentale, considera da sempre come erroneo: lo scavalcamento di campo. Infrangere una regola fondamentale come quella dello "spazio a 180°", significa commettere un grave sbaglio che può compromettere la continuità e chiarezza della scena e, di conseguenza, far percepire allo spettatore un forte senso di spaesamento e confusione. Infatti, prima di pronunciare le ultime battute e dare lo schiaffo a Jerry, Dale è sempre rimasta a sinistra del quadro e Jerry a destra e, pur non essendoci un campo-controcampo, l'intero dialogo, ripreso con camera fissa, con lo stesso piano e lo stesso sfondo (la terrazza), mantiene una propria chiarezza compositiva. Tuttavia, un improvviso ribaltamento della posizione della macchina da presa ci catapulta "all'interno" dell'edificio (sulla terrazza) mostrandoci i due personaggi in posizione opposta rispetto l'inquadratura precedente. Comunque, lo scavalcamento di campo in questo caso, se da un lato corre il rischio di confondere lo spettatore distraendolo dalla narrazione, dall'altro si rivela necessario per giustificare l'allontanamento di Dale dalla scena (non prima però di aver schiaffeggiato Jerry), che non poteva certo andarsene dando le spalle al pubblico, e riprendere frontalmente Jerry mentre, dolorante, dice «come mi ama». Dunque, una trasgressione alla regola classica dovuta a esigenze linguistiche e stilistiche imposte dalle stesse regole classiche.
Se "Cheek to cheek" è strettamente legato alla struttura narrativa, "The Piccolino" può considerarsi, invece (ad eccezione di "Top hat, white tie and tails"), l'unico numero musicale fine a sé stesso e "indipendente" rispetto al racconto e, dunque, più simile alle tradizionali sequenze coreutiche del genere musical. Qui, infatti, si dà ampio spazio alla "massa" di ballerini, ma anche di gondolieri, clienti e ospiti dell'albergo, camerieri, ecc. che, muovendosi, occupano tutta la scena. Spazio scenico che viene, ovviamente, ripreso con ampie inquadrature e lenti movimenti dall'alto in grado di cogliere e trasmettere la grandezza e la complessità scenografica. Quest'ultima poi riproduce una Venezia irreale e assurdamente dominata dal colore bianco; attraversata da grottesche gondole che, provenendo da teatrali sfondi in stile "art déco", incrociano, nei piccoli canali, gracili ponticelli prima di uscire dal quadro e scomparire dall'inquadratura.
Insomma, da una Venezia frutto di un'italianità immaginaria e da un'idea, eccessivamente stereotipata di americani che a Venezia, quella vera, forse non ci sono mai stati, deriva l'atmosfera dal forte sapore kitsch che prepara lo spettatore ad assistere, proprio come i clienti sulle terrazze, ad un esplicito numero musicale.
Uno spettacolo spettacolare dichiarato che non solo non pretende di essere integrato nel racconto, ma diventa una vera e propria "pausa" della narrazione del film stesso. E allora entrino i ballerini e inizino le danze. La macchina da presa sorvola dall'alto quello che si è trasformato in un palcoscenico teatrale per regalare un punto di vista privilegiato allo spettatore, permettendogli di cogliere le complesse figure coreografiche di massa realizzate dai ballerini. Ma questa sequenza non sarebbe completa senza un'ultima "visione" del tip tap di Fred Astaire e Ginger Rogers. E, infatti, ecco che la folla si fa da parte per lasciare spazio ai due protagonisti. Dopo un breve tentativo di suspense creato dalla regia che stringe in dettaglio sulle gambe della coppia, (breve, perché riconosciamo immediatamente quei piedi danzanti) Fred e Ginger si scatenano alternando delicati momenti di pas de deux a energici passaggi di tap dance. Questo ultimo segmento ballato da Jerry e Dale si ricollega nuovamente alla struttura narrativa (la pausa è finita), riconducendoci all'interno nella storia lasciandoci, però, la sensazione che ora ogni malinteso si sia chiarito, che ognuno abbia capito la vera identità dell'altro e, finalmente, che l'amore perfetto possa essere celebrato. Pura sensazione perché, in realtà, la situazione, in questo momento, è più complicata che mai.
Infatti, in nome della "trasparenza" narrativa classica, è necessario che la sensazione o la supposizione, per quanto esplicita, diventi, agli occhi dello spettatore, un fatto chiaro e dichiarato e, pertanto, deve essere spiegato esaustivamente dai personaggi.
La «narrazione canonica» del racconto classico, a detta dello studioso David Bordwell, presenta individui psicologicamente definiti che lottano per risolvere un problema evidente e per raggiungere degli obiettivi specifici. Nel corso di tale lotta, i personaggi entrano in conflitto fra loro o con circostanze esterne. La storia si conclude con una vittoria o una sconfitta decisive, la risoluzione del problema e un chiaro raggiungimento o non raggiungimento degli obiettivi».
Cappello a cilindro è da sempre riconosciuto come il miglior film della coppia Astaire-Rogers che «qui - scriveva la critica della "prima" newyorkese - raggiungono il culmine dell'affiatamento, dell'agilità della precisione, della stupefacente maestria professionale e artistica». Il successo mondiale risuona fin dalle primissime apparizioni sugli schermi dell'America della Depressione che riconosceva (e vedeva) in quelle città fasulle, in quelle coreografie straordinarie, in quelle musiche e in quell'affiatamento di Ginger e Fred, una fuga dai problemi della realtà quotidiana. In poco più di un'ora, lo sfarzo, la musica e la danza di quel mondo magico diventavano antidoti contro il malessere sociale da cui prendeva forma la speranza, concreta e reale, di una futura possibilità di ripresa. «Facevamo film felici, che la gente si divertiva a vedere», dirà la stessa Ginger Rogers durante un'intervista di molti, molti anni più tardi.
La grazia, tanto raffinata quanto artificiosa ed innaturale, che accompagna il corpo in movimento di Fred Astaire e conquista il cuore di Ginger Rogers, era in grado di riempire interamente il palcoscenico (e lo schermo), trasportando via lo spettatore in una dimensione di fiaba. Il binomio Astaire-Rogers, naturalmente perfetto e completo traspare anche dalle parole di Katharine Hepburn quando mette in luce come «Fred donava a Ginger la classe, mentre lei gli aumentava il sex appeal». E, potremmo aggiungere, in quella classe e sex appeal "di coppia", era racchiusa la leggerezza che nasceva dai loro corpi presenti sullo schermo. La presenza di una femminilità che contrasta e insieme evidenzia la virilità e viceversa, in una coesione che non è mai prevaricazione dell'una sull'altra. Una complicità così potente e attraente da restare irresistibile ancora oggi, a quasi ottant'anni di distanza.
Sì perché sono passati quasi ottant'anni ma Cappello a cilindro continua a meravigliare milioni e milioni di spettatori con il suo fascino e il suo spirito. È un musical che ha sicuramente contribuito a rendere grande la Hollywood classica e, per questo, automaticamente iscritta nell'Albo degli immortali. Ma, anche se Cappello a cilindro non si ricorderà per l'originalità della storia raccontata, della sceneggiatura o della regia o, ancora, delle scelte musicali, certamente, quel che resta e resterà nell'immaginario comune saranno Fred Astaire e Ginger Rogers che, insieme, sempre, danzano, delicati come soffi di vento, un infinito pas de deux.
Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI.