di R. Gaudiano
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Cafè Society recensione] - 1930, Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) che vive a New York dove lavora nella gioielleria del padre, decide di trasferirsi a Los Angeles per raggiungere suo zio Phil (Steve Carell), potente agente delle star del cinema, così da tentare la strada dell'agente cinematografico. Bobby non è ben atteso dallo zio perché questi è convinto dell'inefficienza del ragazzo e solo dopo alcune settimane lo riceverà per assumerlo come fattorino. Nella nuova metropoli il ragazzo farà alcune importanti conoscenze, tra cui Vonnie (Kristen Stewart), segretaria ed amante dello zio, di cui si innamora seriamente. Il caso vuole che la relazione tra lo zio e Vonnie finisca bruscamente. Tra Bobby e la ragazza è finalmente amore condiviso, tanto che decidono addirittura di sposarsi e trasferirsi. Ma le situazioni così come si capovolgono, possono capovolgersi ancora e Vonnie, ripresa al laccio da zio Phil, decide di accettare la sua proposta di matrimonio lasciando Bobby con un palmo di naso. Deluso ed amareggiato, Bobby tornerà a casa sua, a New York, dove dirigerà con molta disinvoltura e savoir faire il Cafè Society, Nigth club frequentato da gente di successo e di fama. Si sposerà e sarà padre felice. Un giorno Vonnie va a fargli visita al Cafè Society e lì il cuore di Bobby sussulta di quel sentimento caldo e piacevole mai svanito che lo (ri)anima senza remore. Woody Allen è il maestro del discorso profondo e prospettico, cineasta indiscusso, capace di saper creare opere con una forza originale per fatti e personaggi spesso banali, ai quali però dà una nuova dimensione critica. "Cafè Society" ne è una piacevolissima dimostrazione, commedia tratteggiata da figure argute, ben calate in un pacato e sobrio umorismo, con una quantità notevole di osservazioni pungenti sul costume americano. In quel lontano 1930, la società americana incarnava la bellezza e l'eleganza che soprattutto il Cinema rendeva (sur)reale, possibile ed ingannevole. Mentre l'amore spesso si vestiva di mensogna e di tradimento. La religione ghettizzava, garantendo l'aldilà al cristiano nella vita eterna dopo la morte e negandolo all'ebreo, il quale dopo la morte era atteso solo dal nulla. Un ballo eterno di sentimenti contrastanti, di cui Bobby e Vonnie fanno segretamente parte, con passione, nella più riprovevole e bugiarda clandestinità, quando, alla mezzanotte del nuovo anno che si affaccia puntuale al mondo sono uniti tacitamente dall'intensità del loro pur distante pensiero. "Cafè Society" non ha la solita comicità corrosiva e divagante che troviamo in altri film di Allen. Qui c'è uno stile classico, che non si discosta mai dalle esigenze stilistiche del grande cineasta hollywoodiano rivelando la sua personalità individuale. Un Allen che riesce ad inebriare il pubblico di illusione nella rappresentazione nostalgica ed elegante della metafora dello star-system. Ed esalta con una storia d'amore negata in cui (si)racconta, (si)rappresenta, Bobby, imprigionato in un romanticismo frustrante e perdente. La scelta della voce off ha il privilegio e la funzione di filtro interpretativo, coniugandosi con un'attenzione formale e rigorosa alle inquadrature che si alternano in un sapiente gioco di luci e colori. Perché "Cafè Society" è soprattutto immagine perfetta, costruita in un ambiente art-decò curato nei minimi particolari, cui i dialoghi si sposano senza una sbavatura. E nell'impossibile amore, il ricordo sarà l'unico conforto, relegato in un tempo che si dilaterà, senza mai cancellarlo. Splendida fotografia del tre volte oscar Vittorio Storaro. Assolutamente da non perdere! (di
Rosalinda Gaudiano)
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***] Café Society dev'essere uno di quei film che, un anno sì e uno no, Woody Allen riesce a indovinare – come ammette egli stesso, scherzando ma lasciando sempre intendere che no, è serissimo. Non dobbiamo cercare l'originalità a tutti i costi, non dobbiamo lasciarci ingannare dal trailer e da quella battuta sulla vita scritta da un commediografo sadico, che suona così stucchevole estrapolata dal suo habitat. Possiamo invece essere sicuri di trovare l'ironia che abbiamo imparato ad apprezzare in Allen, smorzata dalla malinconia come succede in Manhattan, per esempio – con cui Cafè Society condivide appunto Manhattan, talvolta addirittura inquadrata nello stesso modo. Possiamo identificarci almeno un pochino con Bobby (Jesse Eisenberg) e Vonnie (Kristen Stewart, ancora impermeabile al ruolo dell'attrice). Il primo viaggia da New York a Hollywood sperando che lo zio Phil (Steve Carell, agente cinematografico) possa trovargli un lavoro nell'ambiente più ambito dei Roaring Twenties; la seconda, "segretaria" di Phil, è ormai disillusa da una vita che, crede, non fa più per lei: è stato divertente aver studiato recitazione, ma quando si cresce certi sogni rimangono confinati nel passato. Qualche tempo dopo, però, storie di Hollywood e della cafè society newyorkese s'intrecciano ancora, lasciando che il passato torni a disturbare il presente - che non aspettava di meglio.
La cosa che prima delle altre si rende evidente, escluso il font dei titoli di testa, è la fotografia di Vittorio Storaro. Volutamente esagerata, come se a qualsiasi ora il sole americano fosse al tramonto, e arancione accarezzasse parquet e qualsiasi altro mobile di legno scuro e caldo, onnipresente in quelle case contemporanee di D.W. Griffith, Fred Astaire e Ginger Rogers, Willie Wyler… In questa cornice possiamo assistere ad alcune scene davvero esilaranti, come il bisticcio surreale tra Bobby e la prostituta timida: merito sia della scrittura - quei dialoghi pensati come continui battibecchi colti per caso dalla cinepresa - sia degli attori, Eisenberg e Carell in particolare, che contribuiscono a ricostruire non tanto l'atmosfera dello studio system, degli anni dai '20 ai '40, ma ciò che di quel mondo veniva riflesso e probabilmente distorto nei film di quel periodo. Va bene così, lavorare per sintesi, quindi per eccesso nel pepare dialoghi verbosi e personalità, e per difetto, schiacciando i tempi dell'azione e lasciando che i personaggi rubino uno lo spazio dell'altro; che ricordino a noi la cinefilia di un regista forse discontinuo ma sempre appassionato; che poco più di un'ora e mezzo di film sembri più lunga, ma che - non succede spesso - è stato comunque il modo giusto per spendere una serata in buona compagnia.
(di
Paolo Ottomano)
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