La recensione del film Boyhood

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BOYHOOD - RECENSIONE

Boyhood recensione
Recensione

di Mirko Nottoli
[Boyhood recensione] - Di Boyhood si è già parlato parecchio non fosse altro perchè è un progetto cominciato oltre 12 anni fa e che solo ora vede la luce. Boyhood è un esperimento unico nel suo genere, una performance artistica, il tentativo di realizzare una delle utopie archetipe del cinema, quella di afferrare lo scorrere del tempo nel suo divenire, quella di raggiungere l'unità tra tempo filmico e tempo reale, quella di far coincidere l'arte con la vita. 12 anni nella vita di un ragazzo ripreso nelle diverse fasi della crescita. Da bambino ad adolescente fino alla soglia dell'età adulta. Lo vediamo crescere, maturare, cambiare. E con lui tutto il resto, genitori, amici, scenari, mode, idee. 12 anni veri condensati in due ore e mezza vere anch'esse. Vere ma finte, finte ma più vere del vero. Più vere di un documentario per intenderci, anche se trattasi di fiction. Non c'è molto di più in Boyhood ma tanto basta. La domanda potrebbe essere: ma se invece di realizzarlo così fosse stato realizzato in maniera "canonica" con diversi attori ad interpretare il protagonista nelle varie fasi della vita, Boyhood sarebbe lo stesso un bel film? No, ma è qui che casca l'asino. Perché la domanda non ha senso di esistere. Perché Boyhood non vuole rappresentare altro che quello, la tragica banalità della vita mentre accade, il fluire dell'esistenza nel momento del divenire. Non ci sono avvenimenti eclatanti nella vita di Mason, non epici trionfi, non tragedie epocali né cocenti sconfitte. C'è un bambino come lo è stato ognuno di noi che cresce e crescendo cambia e insieme a lui cambia il contesto: da Harry Potter a Twilight, da Bush a Obama. La riflessione sul tempo, soprattutto sul rapporto tra il tempo al cinema e il tempo della storia è una costante di Linklater. A pensarci anche la serie di film inaugurata con Prima dell'alba si basa su un presupposto simile: ogni tot anni un nuovo film con i gli stessi protagonisti che si rivedono esattamente dopo lo stesso tot di anni. Per cui lo stesso tempo è passato per i protagonisti, per gli attori e per noi spettatori. Ma se là l'esperimento è avvenuto un po' casualmente e resta comunque marginale nell'economia del racconto, qui diventa il solo e unico tema del racconto stesso. Prima solo Roman Opalka forse ha tentato, in campo artistico, un'impresa tanto radicale, ossessiva ed efficace, fotografandosi tutti i giorni per tutta la vita nella stessa identica posizione (opera ripresa anche ne la Grande Bellezza in una delle scene più struggenti e significative del film). Si scorrono le immagini di quei volti e non c'è bisogno di alcuna spiegazione, come non ce n'è bisogno in Boyhood. Piuttosto al film di Linklater si potrebbe contestare una certa prevedibilità stereotipata nel percorso umano dei protagonisti, nel loro imborghesimento telefonato, con Ethan Hawke che da giovane scapestrato mette su famiglia e baffi e passa dalla spider alla giardinetta, Patricia Arquette che da ragazza madre spiantata riprende gli studi e si ritrova docente all'università, una parabola esistenziale punteggiata da matrimoni falliti, mariti ubriaconi, teenager ribelli, il mito ingenuo dello studio come chiave del successo, la descrizione di un' american way of life che più scontata non si può. Ma anche questo probabilmente rientra nell'ottica di un disegno paradigmatico e universale che tende ad essere il più "normale" possibile per consentire la maggior identificazione possibile da parte di chi guarda. Del resto, chi non chiederebbe di più alla vita? Invece il più delle volte tocca prendere quello che viene. (La recensione del film "Boyhood" è di Mirko Nottoli)
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