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Big Eyes recensione] - Alla fine degli anni '50 Walter Keane divenne uno dei più famosi pittori degli Stati Uniti grazie ai suoi ritratti di bambini dai grandi occhioni. Peccato che tempo dopo si seppe che i dipinti non erano suoi ma della moglie, Margaret Keane.
Tim Burton, in crisi creativa da tempo immemore, per il suo nuovo film, Big eyes, sceglie di raccontare una storia tratta da "eventi realmente accaduti", realizzando in suo secondo biopic dopo Ed Wood. Come Ed Wood anche Margeret Keane è un'outsider, ma mentre Ed Wood è un film di Tim Burton al 100%, in Big eyes il tocco del regista stenta a riconoscersi e viste le ultime prove non è detto che sia un male. Che sia tratto da una storia vera non significa niente, primo perchè si sa che la verità sta sempre nel mezzo, secondo perchè ogni storia può essere raccontata bene o male, in modo credibile o meno. Quindi che sia tratto da una storia vera non significa che tutto quello che vediamo corrisponde a verità e che bisogna giustificare ogni crepa di una sceneggiatura che descrive l'ascesa dei Keane secondo una parabola sommaria e semplicistica, scandita da snodi narrativi di disarmante funzionalità. Lo stesso mondo dell'arte è descritto da Burton in termini zeppi di stereotipi, con il pittore che cerca la fama senza aver mai preso in mano un pennello, il successo derivante da fenomeni irrazionali, il critico integerrimo il cui giudizio ha potere di vita e di morte, l'ispirazione artistica che quando arriva arriva. Proprio su questo punto, sul perché degli occhioni che tanto piacquero al pubblico di quegli anni, anticipando quella democratizzazione della cultura che verrà sancita ufficialmente con Warhol poco dopo, avremmo voluto da Burton qualche approfondimento in più, qualche chiave interpretativa immaginifica delle sue, anche perché ragazzini con gli occhi grandi erano una delle caratteristiche principali del Burton giovane disegnatore degli esordi. Invece anche su questo aspetto glissa con nonchalance, mantenendosi ad un livello di narrazione superficiale. Come superficiale è la descrizione dei due coniugi Keane le cui diverse interpretazioni dei protagonisti non contribuiscono a rendere verosimiglianza alla vicenda: da un lato Amy Adams, misurata e introspettiva, offre alla sua Margaret contorni fortemente realistici, dall'altro Christoph Waltz (a cui già regalarono un oscar per Django), perennemente irritante e sopra le righe, è un Walter Keane macchiettistico e caricaturale, difficilmente credibile nei panni dell'affabulatore fascinoso in grado di circuire tutto e tutti, soprattutto una come Margaret presentataci fin dall'inizio come una donna forte e risoluta ma che poi si fa turlupinare prima da un cialtrone qualunque poi da due testimoni di geova passati lì per caso. Se la storia cigola per quasi tutto l'arco narrativo Burton poi decide di suicidarsi nel finale trasformando il processo per diffamazione in una farsa bambinesca senza storia, dall'esito evidente fin dai titoli di testa. Se c'è una cosa buona in Big eyes è che Burton fa meno il Burton, non eccedendo nei suoi ormai usurati clichè formalisti gotici/romantici per giocare di rimessa, in sottrazione e limitare i danni (non c'è neanche Johnny Depp in un cameo). Se quella di Margaret Keane sia vera arte oppure no la parola definitiva l'ha data Andy Warhol con la citazione che apre il film: "se le opere di Margaret Keane non fossero belle non piacerebbero così tanto alla gente".
(La recensione del film "
Big Eyes" è di
Mirko Nottoli)
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