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Il racconto umano
celato dietro le quinte
della stesura del
celebre romanzo “A
sangue freddo”
di Truman Capote.
Celeberrimo, famigerato
scrittore e ladro
di vite che fece della
propria esistenza
un monumento a se
stesso, finendo col
soccombere al proprio
personaggio. Lesse
l’articolo che
descriveva l’uccisione
della famiglia Clutter
nel Kansas, uno squarcio
di violenza inimmaginabile
nell’innocente
e tranquilla campagna
americana, e tanto
gli bastò per
prendere un treno
e raggiungere il luogo
con l’amica
Harper Lee (Pulitzer
per “Il buio
oltre la siepe”).
Entrò di prepotenza
nella vicenda, seguì
le indagini e scandagliò
le vite dei protagonisti
del dramma. Il coinvolgimento
gli costò sei
anni di lavoro e sostanzialmente
la morte della carriera.
Dopo aver toccato
l’alto dei cieli
letterari con la pubblicazione
del |
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romanzo/cronaca
ispirato
a un
reale
evento
criminoso,
non
riuscì
mai
più
a terminare
uno
scritto
dall’ampio
respiro.
Conobbe
Perry
Smith
e Dick
Hickock,
individuati
come
gli
autori
del
pluridelitto
e condannati
in seguito
a morire
impiccati.
Risucchiò
loro
fiducia,
ricordi
e illusioni
con
pazienza,
rapacità
e sete
da vampiro.
Fino
all’ultimo
mentì,
lasciando
intendere
di poter
far
qualcosa
per
aiutarli,
convinti
com’erano
che
il |
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suo intervento
li potesse
in qualche
modo riabilitare.
Il sempre
ottimo Philip
Seymour Hoffman
(lo ricorderete
in “Happiness”
e ne “La
25a ora”
solo per citare
due titoli)
indossa con
disinvoltura
i panni irritanti
e affascinanti
dello scrittore
e la regia
di Bennet
Miller si
concentra
sul registro
del puro documento
visivo e classico
che si dipana
asciutto,
sostenuto
da una storia
che è
accento continuo.
Mostra azioni,
appelli e
esecuzioni
capitali sovrapposti
a terrori
(quando finirò
il libro?)
e trionfi
letterari,
lasciando
che emergano
esistenze
lontanissime
eppure legate
da un filo
invisibile.
(di Daniela
Losini)
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