THE DOOR IN THE FLOOR
 

recensione the door in the floor

 
Da un romanzo di John Irving (a voi se sia un bene o un male) una famiglia distrutta dalla morte violenta dei due figli maschi in un incidente dove i sensi di colpa dei genitori genereranno mostri. Lui scrittore di successo di libri per bambini, gira nudo per casa, beve e gioca a squash. Lei naviga nell’apatia, passeggia e guarda il mare. E mentre lui è impegnato a sedurre prosperose signore ritraendole nude (la rediviva Mimi Rogers) con la scusa di esercitarsi nel disegno (lui è anche illustratore dei suoi racconti…chissà che ne direbbe Paolo Crepet?), lei si consola decidendo di fare da nave scuola al giovane e impacciato assistente di lui che si masturba di nascosto sulla biancheria intima di lei. C’è anche la figlia piccola che parla da sola nel cuore della notte rivolta alle centinaia di foto dei fratelli che occhieggiano dalle pareti di casa.  
 
Film dalla disgrazia facile, della serie “drammone famigliare” menagramo eppure consolatorio, non fosse altro per li fatto che, a confronto di quelle, qualsiasi sfiga sembrerebbe brezza marina. La vita è una valle di lacrime, infelicità e disperazione. Tuttavia la disperazione pur straziante non è mai cieca, l’annullamento mai assoluto, l’autodistruzione mai totale (per una disperazione davvero cieca si veda “La Stanza  
del figlio”, film – forse unico – di una realtà pesante come un macigno dove la speranza non è presa nemmeno in considerazione). Lui esorcizza il dolore nella follia, lei seppur affranta ha il coraggio di andarsene e cambiare vita, assicurando anche un futuro migliore alla figlia, ormai liberata a forza dai fantasmi di un passato troppo ingombrante. Grandi temi, manifestazioni plateali, simbologie evidenti come i sentimenti che incarnano (le foto, la porta nel pavimento del titolo), atti estremi in realtà perfettamente decodificati e decodificabili. Ci sono film che vanno fatti, altri fatti solo per compiacere il pubblico. Questo appartiene senza dubbio alla seconda categoria, a quelli che giocano ma barano, magari solo un po’ ma barano, quelli nella cui atmosfera aleggia una sensazione di piaggeria studiata a tavolino, che solletica l’empatia con la platea cullando le proprie fobie e le proprie miserie, i propri timori verso un’ esistenza sì tragica ma comunque sopportabile e in fondo degna di un motivo qualsiasi per andare avanti. Si salvano la ripresa finale delle pareti della casa con ormai solo i ganci dove prima c’erano le foto incorniciate e i due interpreti protagonisti. Jeff Bridges gigioneggia. Kim Basinger si mostra con generosità e a 52 primavere fa ancora la sua porca figura. Da anni sembrano entrambi alla ricerca di una loro identità artistica specifica, una seconda (o terza) maturità professionale da spendere, ma film come questo purtroppo non li aiutano. Per chi non sopportava più l’onnipresente Dakota Fanning pregustandone già un precoce oblio con il sopraggiungere dell’età adolescenziale qui c’è la sorella Elle che è uguale a lei e minaccia di reiterarne le gesta.

(di Mirko Nottoli)

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