Buon regista, con
una notevole padronanza
dei mezzi tecnici,
ottimo conduttore
di attori, Fausto
Paravidino (al suo
debutto cinematografico)
mostra di aver assimilato
i principali insegnamenti
del "Dogma 95"
e di saperli applicare
senza esagerazioni
ma con un giusto equilibrio
al servizio di ciò
che vuole raccontare.
Ritmo veloce, montaggio
scattante, scenografie
appropriate, uso intelligente
della fotografia (sgranata
al punto giusto).
Si nota poi nel film
l'esperienza teatrale
di Paravidino: non
solo il lavoro è
diviso in quattro
atti e il desiderio
di New York (imposto
dalla cultura in cui
si vive) è
un chiaro richiamo
all' "A Mosca
a Mosca!" di
Cechov, ma molte soluzioni
stilistiche, molti
tagli di immagini
hanno più di
un riferimento alla
messainscena drammaturgica
(e bisogna dire che
non infastidiscono,
anzi). Tutto bene
dunque?
A Venezia
ai critici
il film
non
è
piaciuto.
Nel
complesso
l'impressione
è
di un
gran
talento
e di
tante
energie
sprecate.
Interessante
l'idea
di base
di considerare
tutto
il mondo
una
periferia
di New
York,
unico
vero
centro
del
nostro
pianeta,
meta
agognata
e sogno
irraggiungibile
(e il
film
infatti
non
ha una
collocazione
precisa,
l'ambiente
può
essere
qualsiasi
provincia
dell'Occidente).
Il problema
è
che
rimane uno
spunto senza
che la storia,
il racconto
decolli. Abbiamo
un cinico
spaccato della
vita di provincia
(immobile
e isterica
nello stesso
tempo), un
amaro ritratto
del vuoto
mondo giovanile
con la sua
paura di crescere
e il terrore
della solitudine.
Ma tutto questo
non lo avevamo
già
visto nei
"Vitelloni"
di Fellini?
Un film corale
senza che
nessun personaggio
si imprima
nella nostra
memoria, un
affresco della
realtà
odierna che
potrebbe infastidire
più
di uno spettatore
maturo (redenzione
e catarsi
sono assenti)
ma che probabilmente
attirerà
la simpatia
e la solidarietà
dei più
giovani. Un'umanità
(costituita
per lo più
dai figli
del consumismo,
dai forzati
del sabato
sera) che
con l'ironia
nasconde la
sua debolezza,
la sua indecisione;
un'umanità
senza bussola
che parla
molto perché
ha paura del
silenzio;
un'umanità
-come scrive
il regista-
"che
dice per nascondere
quello che
non dice".