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SOY
CUBA, IL MAMMUTH SIBERIANO |
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L’ alterno destino
di un vecchio lungometraggio
di propaganda ha spinto
il brasiliano Vincente
Ferraz a cercarne
le ragioni. Studi
alla scuola internazionale
di film e televisione
cubana, Ferraz e’
sceneggiatore, direttore
della fotografia ed
ha diretto cortometraggi
e documentari. Prendendo
contatto con quanto
restava della troupe
dell’ epoca,
egli si e’ messo
sulle tracce di quella
vera e propria avventura
vissuta nel 1963.
Che rivede sprazzi
di luce grazie a ricordi
dei protagonisti,
fotografie, spezzoni.
“Soy Cuba”
fu la prima coproduzione
sovietico-cubana,
costata una fortuna
in rubli, oltre due
anni di lavorazione,
14 mesi di riprese,
l’ impiego di
5 mila soldati. Sceneggiatura
del piu’ famoso
poeta russo contemporaneo
(Evgenij Evtusenko),
ricercatissima fotografia
di Sergej Urusevskij
(per lui doveva sintetizzare |
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un
popolo,
una
terra,
un momento
storico),
regia
di Mikhail
Kalatozov.
In patria,
dopo
i primi
due
film
non
graditi
al potere,
Kalatozov
fu costretto
per
anni
ad incarichi
amministrativi.
Tornato
a dirigere,
anche
per
merito
della
ribalta
mondiale
giunta
con
“quando
volano
le cicogne”
(Palma
d’
Oro
a Cannes),
gli
venne
affidata
questa
operazione.
Erano
i primi
anni
del
socialismo
post-Batista,
pieni
di fermento
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ed
oggetto di
un’
attenzione
internazionale
che fara’
sbarcare sull’
isola, tra
gli altri,
personaggi
della cultura
del calibro
di Sartre,
Neruda, Ivens.
Rispetto alla
propria esperienza,
agli occhi
dei cineasti
russi questa
sembrava una
rivoluzione
dal volto
piu’
umano, con
meno spargimento
di sangue
e la forte
presenza femminile
delle miliziane.
Durante la
realizzazione
del film,
la “crisi
dei missili”
convinse Kalatozov
a trasformarlo
in un manifesto
contro l’
aggressione
USA. Risultarono
quindi ancor
piu’
accentuati
il tono celebrativo-melodrammatico,
i tempi rallentati,
la voce fuori
campo (“io
sono Cuba.
Gli uomini
quando nascono
hanno due
strade. Scelgo
la stella.
Duro sara’
il cammino”).
Ma per i cubani
non colse
il loro temperamento,
la stampa
scrisse “no
soy Cuba”.
Mentre in
Unione Sovietica
scene come
quella - nell’
albergo ancora
in uso dai
tempi della
dittatura
- della piscina
piena di ragazze
(nelle intenzioni
simbolo erotico
caraibico)
vennero interpretate
come residui
di capitalismo.
Di conseguenza
il film, presentato
in contemporanea
a Mosca e
Santiago,
dopo una settimana
di programmazione
finì
nel dimenticatoio.
Riscoperto
da Scorsese
e Coppola
agli inizi
dei ’90,
cadute le
pregiudiziali
ideologiche
per le quali
l’ Occidente
non lo aveva
proiettato,
e’ stato
osannato dalla
critica statunitense.
Per gli stessi
motivi per
cui allora
non piacque:
l’ immagine
che sopravanza
la scrittura
attraverso
la scelta
dell’
ambientazione,
il movimento
di macchina,
e soprattutto
lo studio
ossessivo
della luce.
Tanto per
dare un’
idea, per
avere una
visione piu'
brillante
si utilizzo’
negativo all’
infrarosso,
pancromatico
e trattato
chimicamente,
in grado di
fornire una
tonalita’
argentea.
E ancora,
sostenendo
che “un
cielo senza
nuvole non
e’ interessante”,
si rimase
tre giorni
fermi ad aspettare.
Oppure vennero
costruite
impalcature
per raggiungere
la posizione
ideale per
il modo in
cui il sole
batteva sulla
cinepresa.
Ed e’
stata proprio
questa attenzione
formale ad
immortalare
la pellicola,
perche’
“le
opere d’
arte restano”.
Anche se -
e’ l’
amara constatazione
- “quando
doveva sostenerci
venne ignorata,
ora che e’
un reperto
archeologico
(o mammuth),
riscattata”.
(di Federico
Raponi)
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