SIAMO TUTTI IN BALLO!
 

recensione siamo tutti in ballo!

 
Uno sguardo sui bambini di New York. Il ballo (standard e latinoamericano) come modo per evitare una vita rapita dalla droga e dall’emarginazione. Una gara tra scuole che spinga i ragazzini a misurarsi con le loro capacità, il loro impegno e le prime brucianti sconfitte della vita. Sembra una buona base di partenza per un documentario che fa della ricerca i frammenti di verità il suo intento principale. Purtroppo però è la descrizione di un film furbo e pretenzioso, che gioca sulla naturale comicità del comportamento infantile e che vorrebbe financo indagare i meccanismi di interazione/integrazione razziale nella Grande Mela. La regista, cubana di nascita e newyorkese d’adozione, confeziona un’opera prima piuttosto banale nelle scelte tematiche. Molto facile la contrapposizione tra l’educazione all’incontro e la sentina  
 
sociale, semplicistiche le dinamiche relazionali tra adulti e bambini, persino stucchevole la morale che vede la sconfitta come fonte d’insegnamento. Regge però l’incalzare della narrazione e anche l’alternanza tra interviste e danza è tutto sommato convincente. Queste note positive non sono però sufficienti a compensare una regia fortemente insincera, che non si risparmia nemmeno il ricorso alla lacrima  
facile. A queste componenti contenutistiche ben poco efficaci si aggiungono scelte formali non da meno. Le immagini fintamente artigianali (la regista ha 15 anni di esperienza, anche come realizzatrice di spot pubblicitari) difficilmente riescono a cogliere momenti che si avvicinino alla verità. Anche la colonna sonora – al di là del repertorio delle musiche da ballo – appare spesso caricata e decisamente poco originale. La ciliegina sulla torta è l’enfatico ralenti finale, ennesimo omaggio sull’altare del patetismo. Questo film fatto da donne, campione d’incassi negli Stati Uniti e vincitore di ben 5 festival cinematografici, è il classico esempio di come una buona base di partenza (un ammirevole progetto sportivo-educativo) posa essere trasformata in un prodotto medio-basso, nel quale la complessità del vivere umano si perde nel politicamente corretto. Un trofeo in palio e qualche decina di bambini teneri e buffi da soli non bastano a fare un buon film. Per concludere, non si può non spendere una parola sulla rara idiozia del titolo originale (Mad hot ballroom) che, viene da dire, già palesa l’assoluta mancanza di genuinità della pellicola. Quello italiano, poi, ha talmente pochi addentellati col contenuto dell’opera che solo per un soffio non pareggia i conti con il cane andaluso buñueliano.

(di Marco Santello)

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