SHANGHAI DREAMS
 

recensione shanghai dreams

 
Un’ottima occasione perduta. Così potremmo definire il film "Shangai Dreams" dell’ottimo e interessante regista Wang Xiaoshuai. Lo ricordiamo, piacevolmente, per il western cittadino-definizione forse eccessiva e paradossale, ma neanche troppo- "Le biciclette di Pechino", Orso d’argento (meritato, ed è gia molto in un festival) a Berlino, un De Sica moderno e più sporco, dove regia, sceneggiatura e fotografia si scontrano aspramente in un’armonia tutta particolare ma omogenea. Buona anche la prova di "So close to paradise", altra dimostrazione di neorealismo cinese, forse troppo pensata e quindi meno incisiva, ma abbastanza da far paura e da subire ben tre anni di censura da parte di questa Cina contraddittoria, simbolo di un Occidente che si ostina ad essere selvaggiamente liberista ma poco demo-  
 
cratico. Nonostante quest’Ovest opulento (ed ora anche l’immensa terra cinese) continui a sostenere e insegnare che questi ultimi due termini siano ingredienti necessari e inevitabili contro l’autoritarismo. Un regista, quindi, con capacità e carattere, ma autore, in questo caso, di un’opera balbettante e mai coinvolgente. Pur se premiata dalla giuria dell’ultimo Cannes. Siamo negli anni ’60, nella Cina comunista (e quindi, ov-  
viamente, figlia di una dottrina demoniaca, stereotipo insopportabile e puerile), che costringe funzionari e quadri ad una diaspora extra- urbana. Molti infatti sono costretti dal partito- governo a un “volontario” processo di disurbanizzazione al fine di sviluppare le industrie locali, a favore di un decentramento fallimentare che potesse arricchire in maniera omogenea il paese. Ciò crea una frustrazione crescente in una famiglia che, se non fossimo in una situazione politica e sociale così particolare, potremmo definire piccolo- borghese. Il padre, vivendo nel mito di Shangai sviluppa un’ansia di controllo violenta e soffocante nei confronti della bella figlia maggiore, fin troppo innocente. La madre, debole e più savia, subisce. Troppo. Il figlio minore si chiude in un autismo di fatto. A dispetto di una complessiva facciata precaria di normalità. Loro specchio è la famiglia della migliore amica della protagonista, più equilibrata. Ciò non impedirà ad entrambe di essere sconvolti da drammi provocati da un sistema perverso, un provincialismo esasperato, un’incomunicabilità irrisolvibile. Temi eterni e fin troppo giusti, che però impediscono una reale originalità nello sviluppo della trama, che risulta sostanzialmente noiosa. Lento il progredire degli eventi, ripetititivo e faticoso il succedersi della quotidianità, didascaliche la regia e, spesso, la recitazione. La giovane protagonista, di una seducente ma anche irritante ingenuità ha qualche asso nella manica, poco supportata dal regista, troppo attento ad un’ambientazione d’insieme che non regge. Il film, quindi, diventa superfluo e poco costruttivo, non attaccando né cuore né cervello dello spettatore, come altre opere dell’autore erano riuscite a fare. Presunzione esecrabile per chi ha la fortuna di aver girato pellicole comunque importanti prima dei quarant’anni. Evitabile.

(di Boris Sollazzo)

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