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Nelle giornate della
memoria, un altro
tassello per poter
ricordare. Direttamente
dall’omonimo
romanzo di Imre Kertéz,
qui nelle vesti anche
di sceneggiatore,
si dipana la vicenda
di Gyuri, giovanissimo
ebreo ungherese. Da
un giorno all’altro
sradicato dalla famiglia
e dall’amata
città, Budapest,
intraprende un viaggio
nella malvagità
dei campi di concentramento.
Scorrono i nomi di
Aushwitz, Buchenwald
e del più “provinciale”
Zteitz, non per questo
meno agghiacciante.
Le radici dell’odio
non sono mai del tutto
chiare ma lo è
senz’altro la
chirurgica pianificazione
della “soluzione
finale” la cui
esistenza testimoniata
in opere come queste,
sarà sempre
necessaria. Il ragazzino
inizialmente resiste
poi sfibrato dalla
fame e consumato dalla
disperazione cede,
spersonalizzato e
in balia degli eventi.
Paradossalmente nel
momento |
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più
terribile,
percepisce
una
malevola
forma
di possibile
sopravvivenza,
garantita
dalla
folle
organizzazione
giornaliera
del
campo.
Marionetta
tra
i corpi
straziati
di chi
non
ce l’ha
fatta,
si trascina
nella
nebbia
del
dolore
più
sordo
e dell’apatia.
Sarà
la salvezza.
Qualunque
altra
vita
è
meglio
della
vita
in un
lager.
Dopo
la liberazione,
ad attendere
Guyri
ci saranno
altri
mostri:
solitudine
e rimozione.
Tornerà
nella
sua
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città
asportato
dal passato
e dalle menti
di chi lo
ha conosciuto.
Accolto/respinto
dalla volontà
di dimenticare.
Abbandonato
ancora una
volta. Nessuno
desidera affrontare
la belva immorale
della propria
indifferenza
né
assumersi
le responsabilità
della memoria.
Dirige Lajos
Koltai, strettissimo
collaboratore
di Stvabo,
scegliendo
immagini rarefatte
che si alternano
sfumando l’una
nell’altra,
mostrando
e talvolta,
raccontando
il catartico
susseguirsi
dei fatti.
Tutto passa
per gli occhi
neri liquidi
di smarrimento
del protagonista,
lo stesso
smarrimento
che ci atterrisce
ogni qual
volta si assiste
alle lacerazioni
incurabili
dell’anima.
(di Daniela
Losini)
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