QUANDO L'AMORE BRUCIA
 

recensione quando l'amore brucia

 
Un altro biopic. Questa è la prima giustificata reazione, seppur superficiale, alla vista dell’ennesimo esempio di uno sfruttamento di un genere troppo inflazionato in questo periodo. Hollywood ha il pessimo vizio di ripetere ossessivamente gli schemi che la rendono più ricca. Ma va sempre valutato con favore chi ne esce vincitore o comunque con onore. Dopo l’intenso e discontinuo "Ray", un altro grande musicista, Johnny R. Cash, anch’egli epocale, viene raccontato sul grande schermo. James Mangold, regista e sceneggiatore, alle prese con il film della sua vita- si dice sempre così, ma visti gli anni di lavoro passati a costruirlo, con il determinante apporto degli stessi coniugi Cash- come nel film sul grande interprete nero, decide di non affrontarlo come un musical lungo “una vita”, ma raccontando solo un  
 
particolare periodo della vita del re del country, la parte più difficile e controversa. Le magistrali interpretazioni, persino canore, di Joaquin Phoenix (già un ottimo Commodo ne "Il gladiatore") e di Resee Whiterspoon, sempre più eclettica e brillante, ci raccontano un amore forte, semplice e sincero che andrà oltre ad una dipendenza di anfetamine di Cash e, in generale, al lato oscuro della sua straordinaria forza. Come  
per Charles, si accenna ad un’infanzia segnata da una tragedia, un fratello amato e ammirato deceduto a causa di un incidente drammatico, un padre duro, chiuso e ingiusto, una realtà di povertà e indigenza, non solo materiale. Cosi nascerà il “Man in black”, dalla voce potente e irregolare, come i suoi testi e il suo carattere, che saprà raccontare la controversa realtà dell’infelicità delle classi più emarginate. Dimostrato nella splendida quanto asciutta sequenza del concerto live del 1968 alla prigione di massima sicurezza di Folsom. Momento di rinascita e consapevolezza per l’artista. Che qui comprende la necessità di convivere con la sua parte più oscura, traendone forza per crescere, umanamente e non. Grazie a June Carter, compagna di una vita, fin da quando, adolescente, la ascoltava alla radio. Lei, forte e sensibile, ottimista ma non ingenua, gli regalerà quel carattere che alla stessa aveva consentito di sfidare molti dei conformismi ipocriti e bacchettoni del suo tempo. Sempre camminando sulla linea, grazie al loro amore, che come la loro musica, bruciava di un selvaggio impeto. Umano e religioso. Interessante questo aspetto, che racchiude più di ogni altro le contraddizioni di Cash e del country in generale. Musica di destra cantata da conservatori che narra delle istanze delle classi più povere, di quei lavoratori sfruttati dal potere, da quel sogno americano cinico e capitalista. Una serie di nodi contraddittori che ci raccontano molto di più dell’America di giornalisti e intellettuali snob e poco avvezzi ad uscire da Washington e New York. Questo ci permette di sopportare qualche leziosità e lentezza di troppo, una retorica a tratti eccessiva, qualche gigione di troppo. Anche perché Phoenix dà al suo Cash una forza interiore insospettabile, non una pedissequa imitazione. E la Whiterspoon offre quella intelligente e caparbia leggerezza, che la rende davvero bella e ancora più brava oltre le sue (adorabili) imperfezioni. Peccato per non aver portato avanti di più l’aspetto strettamente musicale – peraltro egregiamente interpretato dai molti artisti di “contorno”, quali i giovanissimi Jerry Lee “The Killer” Lewis (Waylon Malloy Payne) ed Elvis Presley (il 21enne Tyler Hilton)- sia sotto l’aspetto performativo che per la contestualizzazione temporale, sociale, politica. Valeva la pena, ad esempio, approfondire quello straordinario personaggio di Sam Phillips, sorta di Roger Corman del rock’n’roll. Andate a vedere questo piccolo gioiello grezzo. E poi approfondite la storia del primo punk, rock, folk, country- singer. Di dove è nato. Di dove e come è cresciuto. Ne vale la pena.

(di Boris Sollazzo)

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