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Un’allegoria sui rapporti interpersonali nell’universo massificato in cui viviamo. Il succo di questo lungometraggio, il secondo firmato Gary David Goldberg, regista sconosciuto alle grandi platee, è insito in questa asserzione. La pellicola narra la storia di Sarah, maestra trentenne che, causa separazione coniugale, vive un periodo difficile della propria vita. Se non altro perché costretta a conciliare l’apatia in cui è piombata con l’insistenza dell’universo intimo che la circonda, impegnato più a cercarle un rimpiazzo, neppure troppo dignitosamente, piuttosto che sostenerla nella difficoltà. Però, secondo il più classico dei luoghi comuni, non tutti i mali vengono per nuocere ed ecco che, grazie alla cocciutaggine della sorella Carol, Sarah s’imbatte nel portale perfectmatch.com. Sarà questa l’ancora di salvezza di un’esistenza allo sbaraglio.  
 
A seguito di un giustificato scetticismo preventivo, la separata più fiduciosa d’America inizierà il proprio cammino di scoperta che la porterà, dopo una serie di appuntamenti fallimentari, a conoscere Jake, attratto dalla frase d’apertura del profilo di Sarah: “l’uomo perfetto deve amare i cani”. Commedia romantica senza troppe pretese, la 35 mm in questione spicca esclusivamente per la discreta  
preparazione degli attori protagonisti. Diana Lane e John Cusack sembrano infatti usciti dalla penna di Claire Cook, autrice dell’omonimo romanzo da cui il film è tratto. Per il resto sono rispettati i clichè usuali del genere sentimentale. Inizio in medias res, parvenza di arresa, incontro risolutore e conseguente lieto fine. Nella pellicola in questione il bene, indiretto artefice della felice chiusa, è un cane: Madre Teresa. Esso rappresenta, al tempo stesso, la cagione d’amor e la roccaforte puritana in un mondo governato dalla standardizzazione interpersonale. Goldberg, in stretta collaborazione con la Cook, ci vuole dire che, nell’universo globale in cui siamo, volenti o nolenti, catapultati, con un po’ d’abnegazione e speranza (senza dimenticare un briciolo di fortuna) si può ancora trovare un’oasi da coltivare. Quello che è eccessivamente lasciato al caso, o peggio ancora sottointeso, è il mantenimento della fonte tanto agognata. Insomma convince poco la morale favolistica che il film porta in grembo. Se non altro perché in Cenerentola e nel Principe Azzurro, allo stato delle cose, ci credono poco addirittura i bambini. La spietata morale di Burton (si pensi a Mike Teavee de La fabbrica di cioccolato ad esempio) è qui completamente ribaltata. L’eccezione candida qui diviene regola. Probabilmente è proprio questa utopistica impostazione a svilire eccessivamente l’intera costruzione. Ciò non significa che è sbagliato sperare (anzi) ma che, in un mondo in cui i più piccoli non hanno più timore neanche dell’uomo nero, crederci eccessivamente è troppo pericoloso.

(di Marco Visigalli)

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