PARADISE NOW
 

recensione paradise now

 
Due ragazzi come tanti. Due amici, prigionieri di una terra priva di prospettive e immersa nella povertà quotidiana, ma colorata anche da momenti di gioia e da quei piccoli gesti che rendono la vita degna di essere vissuta. In Palestina non puoi chiedere di più, non puoi aspettarti un’esistenza normale. "Paradise Now", diretto da Hany Abu-Assad, non è soltanto un film, è un piccolo miracolo. Soltanto così si può definire un lavoro privo di retorica e di partigianeria, capace di spiegare a noi occidentali, a colpi di ironia e di sarcasmo ma anche di dolore, i motivi che alimentano una spirale di violenze e che spingono un uomo a farsi saltare in aria rinunciando alla propria vita, ad immolarsi per una causa: a diventare un kamikaze. Con una leggerezza inaspettata, il regista affronta un tema delicatissimo come la questione israelo-  
 
palestinese e ci fa addentrare nelle ragioni di un fenomeno che la nostra cultura non riesce in nessun modo a concepire, tanto è distante dai nostri modi di intendere la vita e la morte. Ma ci sono parti del mondo in cui la vita umana vale così poco da essere considerata meno importante di una morte gloriosa nel nome di un Dio. I personaggi raccontati in quest’opera sono così incredibilmente reali che, caso più unico che  
raro, quasi ci si confonde con essi, ci si immedesima, ci si specchia in essi. Le vite di Said e Khaled (interpretati da Kais Nashef e Ali Suleiman, entrambi magnifici) potrebbero essere le nostre, potrebbero svolgersi in qualsiasi altro angolo della terra; ci assomigliano, addirittura. Abituati come siamo ad individuare l’arabo come nemico, o almeno come diverso, come altro da noi, è disarmante ritrovarsi di fronte a delle persone, a degli uomini, che ridono, scherzano, lavorano e amano. O che almeno vorrebbero farlo. Uomini strumentalizzati, umiliati ed ingannati dai cosiddetti custodi della fede, che insegnano l’odio e sanno come coltivarlo, in modo da ottenere intere generazioni di aspiranti martiri con in odio la propria esistenza oppressa, il cui unico ideale è l’annientamento del nemico. Abu-Assad risponde a questa cultura della morte con un' opera forte, che evidenzia i le ragioni ma anche le strumentalizzazioni della causa palestinese, appellandosi alla vita, unica speranza per un futuro di pace.

(di Antonio Nasso)

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