Dopo gli allori dell'Oscar
per "Il Pianista",
Roman Polanski, o
chi per lui, deve
aver pensato che avere
tanti soldi a disposizione
equivale a fare un
buon prodotto. In
effetti questo "spettacolone"
mostra in pieno la
quantità di
denaro occorso per
realizzarlo: grandi
masse, scenografie
gigantesche, un cast
di tutto rispetto,
collaboratori tecnici
di fama mondiale.
Ma non è "un
buon prodotto",
tutt'altro. Più
di due ore in cui
accadono cose che
chi ha un minimo di
cultura conosce a
memoria (anche perché
viste e riviste sul
grande e sul piccolo
schermo), senza una
punta di novità,
un briciolo di fantasia,
un seppur timido tentativo
di qualche originalità.
Il tutto aggravato
da una completa mancanza
di omogeneità
tra le varie parti:
nella prima ora abbiamo
la rappresentazione
di un mondo cattivo
visto
in chiave
grottesca,
quasi
comica
e ti
viene
pertanto
il sospetto
che
forse
Polanski
ha inteso
fare
una
caricatura
dell'universo
dickensiano;
poi
appaiono
cattivi
veramente
cattivi,
cane
compreso
(che
naturalmente
è
un pitbull),
odiosi
e sgradevoli.
e il
film
prende
una
piega
completamente
diversa.
Si aggiunga
che
il protagonista
(suo
limite,
o colpa
del
regista
che
non
lo sa
dirigere,
o difetto
della
sceneggiatura
che
spesso lo
colloca in
un angolo
come testimone
muto di avvenimenti
che si limita
ad osservare)
non ha il
minimo spessore,
manca assolutamente
di personalità
rendendo così
difficile,
da parte del
pubblico,
partecipare
alle sue disavventure,
disavventure
che non coinvolgono
e non emozionano.
La musica
ridondante
e ripetitiva,
la scenografia
troppo simile
a cose già
viste (la
Londra notturna
vista dall'alto
è una
copia perfetta
di quella
mostrataci
quarant'anni
fa da "Mary
Poppins"),
il doppiaggio
non sempre
convincente
non migliorano
l'umore dello
spettatore,
spettatore
portato spesso
ad annoiarsi
e a chiedersi
che senso
abbiano simili
operazioni.
Perché
scomodare
Polanski se
la produzione
mirava a un
prodotto destinato
a un pubblico
televisivo
che, specie
nel periodo
natalizio,
è sempre
ben disposto
a seguire
con tutta
la famiglia
le peripezie
di un bambino
a cui tutto
va male (per
vedere alfine
il bene trionfare)?
Perché
Polanski si
è prestato
a una operazione
prettamente
e spudoratamente
commerciale,
che evidentemente
non lo ha
minimamente
stimolato
visto che
ha evitato
accuratamente
di imprimervi
una nota personale?
Come dimenticare
quella commedia
fantastica,
raffinata,
irresistibile
(parodia arguta
dell'horror)
che fu "Per
favore, non
mordermi sul
collo",
o la prodigiosa
rivisitazione
del noir (nello
stesso tempo
romantica
e lucida,
struggente
e materialista,
affascinante
e sconvolgente,
coinvolgente
e malinconica)
di "Chinatown"?
La televisione
sta uccidendo
il cinema
e non tanto
perché
gli toglie
spettatori
quanto perché
"il prodotto
cinematografico"
tende a snaturarsi
sempre di
più
rincorrendo
affannosamente
i modelli
televisivi,
a cui si confà
senza alcuna
resistenza.
Ormai nel
cinema sta
accadendo
quanto da
tempo avviene
nella carta
stampata:
i quotidiani
imitano la
televisione
(negli argomenti,
nel taglio
delle notizie,
nell'impaginazione)
sperando di
arginare le
perdite e
non si rendono
conto che,
scivolando
sempre più,
finiranno
col perdere
lo zoccolo
duro che ancora
li sostiene.
Se sempre
più
frequentemente
in una sala
cinematografica
assisto a
un qualcosa
che la tv
mi offre quotidianamente,
fino a quando
continuerò
a frequentarle?