OGNI COSA E' ILLUMINATA
 

recensione ogni cosa è illuminata

 
La shoah, la guerra, il nazismo, la memoria, una fotografia sbiadita, l’ebraismo, un misterioso paesino disperso nella campagna ucraina, Trachimbrod, oggetti raccolti e conservati in sacchettini di plastica, occhiali dalla grossa montatura nera, l’incontro di culture diverse, il ricordo del nonno e la ricerca della donna che lo salvò, il senso della storia che ci cammina accanto illuminando ogni cosa. Le contraddizioni di un’ America piena di luci e d’ombre si possono vedere anche da qui, da un attore come Liev Schreiber, utilizzato finora dall’industria del cinema per inutili thriller politici (vedi l’orripilante “The Manchurian Candidate”), che passa dietro la macchina da presa e gira una storia delicata e commovente, piena di poesia e sincera partecipazione. Una storia non nuova nei suoi aspetti di fondo ma trat-  
 
tata con originalità ed estrema leggerezza seppur all’interno della gravità che il tema comporta. Anzi, forse è proprio l’indugiare insistito sul quadretto caricaturale, a cui prestano il destro i continui equivoci scaturiti dallo scontro di civiltà in quel di Ucraina, con tutti i suoi pittoreschi abitanti, a rappresentare il lato più debole, se non l’unico, del film. Protagonista è Jonathan Safran Foer (interpre-  
tato da un etereo Elijah Wood) l’autore del romanzo omonimo da cui il film è tratto, che, già ossessionato dagli oggetti e dalla storia che tali oggetti si portano appresso, decide, complice una vecchia foto, di recarsi in Ucraina per trovare il paese natale del nonno e la donna che, durante la guerra, lo aiutò a scappare in America. Là giunto, incapperà nelle tre guide più improbabili che si possano immaginare: un giovane ammiratore di Michael Jackson, il nonno convinto di essere cieco pur vedendoci benissimo, e un cane. A bordo di una scassatissima auto azzurra, percorrendo km e km in mezzo al nulla alla volta della fantomatica Trachimbrod, la ricerca dell’uno si trasformerà lentamente nella ricerca degli altri, alla scoperta di un passato rimosso incredibilmente comune. Oscillando tra dramma e commedia “Ogni cosa è illuminata” si fa non solo toccante testimonianza sulla shoah quanto piuttosto riflessione filosofica sulla memoria e l’importanza delle cose che ci lasciamo dietro, in cui centrale diviene il tema dialettico del vedere/non vedere, non a caso sottolineato più e più volte dal film: il nonno che si crede cieco, i grossi occhiali del protagonista, occhi che vedono ma non vedono se a guardare non è l’occhio del passato, l’unico capace di illuminare il presente, di ricongiungere ciò che è stato disunito, di farci riconciliare con noi stessi, di vedere al di là delle apparenze, di scoprire che le facce sono sempre le stesse in qualsiasi parte del mondo ci si trovi, di riconsiderare sotto una luce diversa il valore di ogni singolo “casomai” detto e lasciato cadere con troppa indifferenza.

(di Mirko Nottoli )

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