MOOLAADE'
 

recensione moolaadè

 
Sembene Ousmane, giovane, lavora studia milita in Francia. Nel 1960, quando il Senegal diventa indipendente, torna, ormai quarantenne, nella terra d’origine e decide di fare il regista a tempo pieno: il cinema gli dà la possibilità di esaudire il suo desiderio di rivolgersi a un pubblico più numeroso per mostrare l’Africa reale, un‘Africa dove si vive giorno per giorno e dove la liberazione dalle vecchie costrizioni procede molto lentamente (ma, secondo il regista, inevitabilmente ed è indicativo che questo film termini inquadrando una moschea incoronata da un minareto sulla cui cima si trova un‘antenna televisiva). Una realtà affascinante e complessa, meritevole di essere conosciuta. Una realtà che ci viene mostrata attraverso una splendida fotografia, ambientazioni particolarmente accattivanti, immagini  
 
di grande bellezza. Impariamo a conoscere abitudini, tradizioni, modi di vivere di un piccolo villaggio (il film è stato girato interamente nel Burkina Faso, in una zona, in prossimità del Mali e della Costa d’Avorio, che vede la coesistenza di numerose culture). Ma il tutto non è una vuota esercitazione stilistica, né un mero preteso riempitivo. E’ lo sfondo necessario per comprendere quello che è il tema principale del  
lavoro di Ousmane: il denunciare la pratica della escissione (salindé). "Moolaadé" è un’antica parola che indica la protezione accordata a qualcuno in fuga, una convenzione non scritta ma con le sue regole, riconosciuta da tutti gli indigeni (e chi la trasgredisce è portatore di funesti presagi). E il film parla infatti di quattro ragazzine che chiedono protezione a una donna, famosa perché si è rifiutata si sottoporre sua figlia alla pratica della escissione. Tutto il lavoro si impernia sullo scontro tra i due valori, il rispetto del diritto d’asilo e l’antica tradizione della salindé. Quest’ultima accettata perché ritenuta l’unica in grado di elevare la giovane ragazza al rango di sposa, porla all’apice dell’onorabilità. Ma è una pratica il cui risultato è un calvario senza fine: una vita sessuale infernale, malattie, parti difficilissimi (taglio del clitoride perché il piacere sessuale non venga mai provato; taglio delle piccole e grandi labbra, cucite e riaperte solo per far nascere i figli). Una pratica erroneamente ritenuta una regola dell’Islam (nel Corano non c’è alcuna menzione della necessità di mutilare le donne). E il film mostra come non sia una faccenda che riguardi esclusivamente le donne: dice chiaramente il contrario ed evidenzia sino a che punto sia la dominazione maschile ad essere in gioco (permette ai futuri mariti di controllare la fedeltà e la sessualità delle loro spose). Il regista è abilissimo nel mostrare le contraddizioni insite nell’essere umano, le sue esitazioni, le sue perplessità, il suo volere il nuovo ma con la paura di isolarsi dalla società in cui vive. Personaggi ritratti intelligentemente, accattivanti e "veri": li avverti immediatamente vicini e segui con attenzione le loro vicende, sentendoti coinvolto e partecipe. Grazie anche a un gruppo di bravissimi attori che sembrano non recitare ma "vivere" i loro ruoli. Un film da vedere, un film che fa riflettere e discutere, una film da diffondere in questa nostra epoca sempre più globalizzata e interculturale. Il film ha vinto la sezione "Un Certain Regard" al festival di Cannes 2005.

(di Leo Pellegrini)

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