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recensione memorie
di una geisha
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L’inafferrabile
mondo delle geishe,
le seducenti quanto
misteriose artiste-cortigiane
della tradizione giapponese,
visto con gli occhi
della più acclamata
tra esse: è
questa l’idea
alla base di “Memorie
di una geisha”,
nuovo lavoro di Rob
Marshall (tornato
dietro la cinepresa
dopo il pluripremiato
“Chicago”)
– e, ancor prima,
dell’omonimo
best-seller firmato
da Arthur Golden.
Per l’indubbio
fascino del tema trattato,
per il cast di primissimo
livello che ha preso
parte all’opera
(presenti i più
grandi nomi del cinema
asiatico, da Gong
Li a Zhang Ziyi, da
Michelle Yeoh a Ken
Watanabe) e, soprattutto,
per l’ottima
fattura complessiva
della pellicola, “Memorie
di una geisha”
promette di diventare
uno dei maggiori successi
della stagione cinematografica.
È la storia
di Chiyo, più
tardi conosciuta col
nome nome d'arte |
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Sayuri;
la quale,
da bambina
impaurita,
venduta
a soli
9 anni
dai
propri
genitori
a una
“okiya”
(una
casa-scuola
per
geishe)
e nonostante
la dura
gerarchia
della
scuola
e l’invidia
violenta
della
bella
Hatsumomo
- diventerà,
grazie
al sostegno
di Mameha,
una
raffinata
e potente
cortigiana,
la più
desiderata
tra
le geishe
di Kyoto.
Più
che
la trama,
piuttosto
lineare
a dire
il vero,
di questo
film
colpisce
la straordinaria
rivisitazione
della
figu-
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ra
della geisha
in tutta la
sua complessità,
spesso brutalmente
stilizzata
in Occidente.
"Ci sono
due miti a
proposito
delle geisha.
Uno è
che le geisha
sono delle
prostitute.
Questo mito
è sbagliato.
L'altro è
che le geisha
non sono delle
prostitute.
Anche questo
mito è
sbagliato":
l’affermazione
di Golden
ben rappresenta
quanto sia
in realtà
difficile
dare una definizione
di queste
donne, che
non hanno
un corrispettivo
alle nostre
latitudini.
Il film descrive
con molta
perizia –
coinvolgendo
appieno lo
spettatore
- la ferrea
disciplina
dell’okiya
e l’impietoso
ammaestramento
fisico e mentale
della scuola,
in cui le
alunne imparano
a diventare,
tra ventagli
scarlatti
e pettini
di giada,
la perfetta
controparte
delle vanità
maschili;
i complessi
rituali sociali
delle sale
da the nell’hanamachi
(il quartiere
delle geishe,
splendidamente
ricostruito),
dove le ragazze
intrattengono
facoltosi
gentiluomini,
nella speranza
che uno di
questi possa
diventare
il loro “damma”
(una sorta
di protettore-finanziatore);
la competizione
le geishe
più
celebri, per
la conquista
di un partito
migliore o
per l’eredità
di una okiya;
e, infine,
la vendita
della propria
verginità
al miglior
offerente.
Nella magnifica
fotografia
ambrata di
Dion Beebe
si attraversano,
a braccetto
con la protagonista,
tre epoche
del Giappone
novecentesco:
quello fieramente
imperiale
degli anni
’30;
quello annerito
dalle bombe
e dall’intollerabile
sconfitta;
infine, quello
dell’occupazione
americana
e della lenta
difesa di
una propria
intima identità.
È chiaro
il parallelo
con le fortune
delle geishe:
corteggiatissime
negli anni
splendenti
dell’Impero,
costrette
a fuggire
dalle città
in fiamme
durante i
bombardamenti
verso le aspre
campagne,
per poi tornare
nuovamente
in auge, grazie
alle voglie
esotiche dei
nuovi padroni.
Ma, forse
più
che l’aspetto
storico o
sociale, Marshall
lascia che
siano illuminate
le strade
sotterranee
di Chiyo-Sayuri:
la dolorosa
accettazione
di un destino
scelto da
altri e dal
quale è
impossibile
la fuga; la
scoperta di
avere desideri
- la passione
segreta per
un gentile
uomo d’affari
- e di non
poterli soddisfare
in alcun modo;
la faticosa
ricerca di
relazioni
umane, dietro
la barriera
del trucco
e del kimono.
E, soprattutto,
Sayuri non
viene in alcun
modo rappresentata
come un’eccezione:
i ceppi che
le stringono
le caviglie
sono quelli
che inchiodano
tutte le altre
geishe; i
suoi patimenti,
le sue lacerazioni,
sono comuni
alle sue sorelle,
persino alla
crudele Hatsumomo.
Una solitudine
in maschera,
preziosa e
fragile come
porcellana.
(di Paolo
Cola )
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