MATCH POINT
 
 

di Leo Pellegrini (*)

 

di Michele Canalini (***)

Trapiantato a Londra, Woody Allen si è voluto rinnovare realizzando qualcosa di diverso: niente tutta brillante ironia alla "Provaci ancora, Sam", niente tutto dramma crepuscolare alla "Settembre", niente perfetta combinazione di umorismo e tragedia alla "Crimini e misfatti". Intento lodevole, anche perché finalmente non campeggia un protagonista che gli fa da clone (come è accaduto negli ultimi lavori). Tutto bene dunque? Non direi (anche se la stampa, concordemente, ha parlato di "un vero gioiello"). Chi apprezza il suo humour e la sua notevole capacità narrativa rimarrà abbastanza deluso. Mancano in questo lavoro alcune delle tipiche caratteristiche del regista di New York: sintesi, ritmo, scene brevi, musica accattivante. "Match Point" risulta lento e con scene insolitamente lunghe e prolisse (e la noia a volte affiora); non   La storia di un arrampicatore sociale, dalla faccia pulita e dai modi cortesi; un giovane dal talento emergente e dai lineamenti dolci, un Julien Sorel dei nostri tempi in una Londra magnifica allo sguardo e sontuosa per chi frequenta i circoli dell’upper class e conosce gli agi dell’alta borghesia: eppure tutto questo può non bastare, perché è spesso l’ultimo punto quello che decide le sorti di un incontro, di una vita, il match point. Ed è appunto per questo motivo che il giovane protagonista della nostra vicenda (il Chris Wilton interpretato da Jonathan Rhys Meyers), dopo aver scalato con astuzia e ipocrisia i gradini della gerarchia sociale e dell’universo mondano londinese, dopo aver sposato la figlia di un uomo ricco e influente, dopo aver mosso con grande abilità tutte le pedine per raggiungere il suo agognato obiettivo, nonostante tutto
 
 
 
riuscita la scelta di accompagnare varie sequenze con arie di opera (ironizzare sul melodramma che si rappresenta? ma nel film non c'è traccia di intento umoristico) che appesantiscono il tutto. Il difetto peggiore è comunque che sembra vi siano due vicende che non si amalgamano tra loro (tendenti a dimostrare che nella vita conviene essere più fortunati che buoni), la scalata sociale di un uomo e le conseguenze della sua ambizione: ognuna talmente approfondita e conclusa in se stessa che lo spettatore rimane spiazzato e perplesso e tende a chiedersi se per qualche incantesimo ha cambiato inavvertitamente sala. Woody Allen ha voluto probabilmente creare una cinica commedia noir che reinterpreta in chiave moderna "Delitto e castigo", un racconto morale piuttosto cupo che analizza con sguardo impietoso ciò che va male nella vita sentimentale delle persone, ma è ricorso a una storia che non brilla per originalità e credibilità. La sceneggiatura si rifà a tanti film visti e rivisti negli anni Cinquanta (e che ricorda tanto "Una tragedia americana" di Theodore Dreiser): il risultato è che per buona parte del film già prevediamo quello che vedremo nella sequenza successiva (da sottolineare che anche le due principali figure femminili sono tipiche donne degli anni Cinquanta, talmente sottoposte al maschio che avresti voglia di scuoterle e svegliarle: è questa la visione che Allen ha della donna d'oggi?).

"Match Point" non risulta poi sostenuto dagli attori, poco convincenti e accattivanti. Jonathan Rhys Meyers (reso famoso da "Sognando Beckham") per buona parte del film è incolore e monocorde, caratteristiche che stranamente ritroviamo anche in Scarlett Johansson, il cui personaggio è particolarmente improbabile. Come improbabile e inspiegabile è quello interpretato da Emily Mortimer (che avevamo celebrato questa estate come grande attrice, sottile e intensa, in "Dear Frankie" ). Coerente e credibile, come attore e come ruolo, risulta essere solo Matthew Goode (il fratello della moglie del protagonista).




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  questo, infine, il nostro protagonista non può dire di avere la vittoria in tasca. Spesso l’ultima pallina batte contro la rete, lasciando solo al caso la decisione se cadere nel proprio campo o in quello dell’avversario; e allora tutti gli sforzi possono risultare vani, perché è solo la fortuna, o il fato per definirlo classicamente, a decidere i destini dell’uomo. La metafora tennistica è solo un espediente narrativo per valutare questa storia, niente più che un consiglio interpretativo. Il risultato è un film perfettamente calibrato, che mette in scena una vicenda tragica e già conosciuta, già sentita per i diversi richiami letterari (Stendhal, Maupassant, Dostoevskij) e per i precedenti cinematografici che riesce mettere in gioco (lo stesso Crimini e misfatti); ma l’esito è di altissima qualità, per il livello crescente di tensione e per la suspense finale che chiude la vicenda in maniera emblematica, come in un gioco a incastri non condizionato dall’uomo; e tutto questo senza tralasciare i contributi lirici che accompagnano il dipanarsi degli intrecci, dal "Trovatore" all’"Elisir d’amore" e al "Pescatore di perle", fino all’azzeccata scelta finale dell’"Otello" e del "Macbeth". Inutile e sbagliato ricordare qui la trama, per non rovinare la visione a chi ancora non è entrato in sala; solo appuntarsi da qualche parte che questo è un film di Woody Allen, sebbene strano a dirsi.


 
 
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