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Battendo il favorito
(e stupendo) "Caché"
di Michael Haneke,
il sesto lungometraggio
dei fratelli Dardenne
(registi belgi, cioè
di un piccolo cinema
che non fa quasi mai
notizia) ha vinto
l’ultimo Festival
di Cannes (sei anni
dopo "Rosetta").
Di estrazione sociale
modesta, cresciuti
a contatto col mondo
operaio, Jean-Pierre
e Luc Dardenne realizzano
sempre un cinema del
disagio sociale, un
cinema asciutto e
rigoroso che spesso
costituisce un’ardua
sfida alla platea.
La scorsa estate ad
Amsterdam hanno ricevuto,
davanti a una platea
di esercenti e professionisti
da tutta Europa, il
premio "International
Directors of the Year":
tra l‘altro
nella motivazione
si diceva "...è
grazie a registi di
questo calibro che
il cinema europeo
può ancora
rivendicare la propria
autonomia, mostrandosi
capace di conquistare
il pubblico attraverso
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scelte
coraggiose,
che
fanno
della
qualità
il loro
centro".
E che
si tratti
di un
film
coraggioso
e anticonformista
non
c’è
dubbio.
Riprendendo
i principali
ingredienti
del
Dogma
95 (mancanza
di colonna
sonora
esterna
aggiunta
o luci
artificiali,
macchina
da presa
a mano,
intreccio
quasi
in tempo
reale…)
i Dardenne
raccontano
di un
amore
fatto
di giochi,
scherzi,
fughe,
sesso
e nessuna
responsabilità
ma soprattutto
della
lotta
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della
lotta per
la sopravvivenza
di una giovane
coppia tra
emarginazione
sociale e
criminalità,
il tutto all'insegna
del cinema-verità.
Senza porsi
in una maniera
accusatoria
e incriminante,
mostrando
ma non giudicando,
ci parlano
di personaggi
intimamente
disperati,
soli con se
stessi, quasi
maledetti
dell’animo
e concentrano
la loro attenzione
sul protagonista,
Bruno, uno
sconfitto
che non appare
però
malvagio o
cinico. L’ambiguità
del titolo
è chiara:
chi è
l’enfant?
Il neonato
venduto o
lo stesso
Bruno, sorta
di orfano
spaesato in
bilico tra
passioni,
incoscienza
e ambiente
ostile? Si
potrebbe quasi
dire che il
neonato sia
in realtà
lo stesso
Bruno, un
tipico rappresentante
di una gioventù
che non accetta
responsabilità,
un tipico
esempio dei
tanti sparsi
nell’opulento
Occidente
impossibilitati
a crescere
in una società
che apparentemente
mette tutto
facilmente
a disposizione
(Bruno "prende"
non "ruba"),
Occidente
che sul "danaro"
unico "valore"
costruisce
il futuro
dei suoi cittadini.
Un cinema
forte, nobilissimo,
quello dei
registi belgi,
un cinema
che angoscia
e fa disperare
sul futuro
dell’umanità,
una storia
che mette
a disagio
gli spettatori
con la sua
vicenda sgradevole
al massimo,
un ritratto
lucido che
si vorrebbe
non vedere
voltandosi
dall’altra
parte, un
film che pur
col suo lento
ritmo e le
sue ripetizioni
non consente
la minima
distrazione.
Eccezionali
i due protagonisti.
(di Leo
Pellegrini
)
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