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recensione la
cura del gorilla
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Claudio Bisio ci riprova
dopo il modesto Asini
e stavolta fa centro
confermandosi grande
non solo in teatro
e in televisione ma
finalmente anche al
cinema, attore a cui
l’aggettivo
comico va indubbiamente
stretto, dotato di
una bella faccia e
di un physique du
role non ancora sfruttato
al massimo delle sue
potenzialità,
capace di dominare
la scena praticamente
da solo. Al suo servizio
un bel romanzo noir
di Sandrone Dazieri,
carico di spunti originali
che a contatto con
la pellicola omonima
esplode in una miriade
di allusioni autoreferenziali
(il protagonista si
chiama come l’autore
che a sua volta sembra
la controfigura di
Bisio) e la regia
talentuosa di Carlo
A. Sigon, fin dall’inizio
interessato più
alla descrizione di
ambienti e atmosfere
che a rendere plausibili
snodi narrativi solo
accennati. Ragion
per cui l’intreccio
assomiglia ad |
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una
strada
dissestata
e il
percorrerla
si fa
discontinuo
e imprevedibile,
ma chi
è
alla
guida
ha tutta
l’aria
di non
fregarsene
procedendo
spedito
e lasciando
a chi
segue
l’onere
di asfaltare,
se ne
ha voglia,
altrimenti
amen.
In equilibrio
tra
thriller
e commedia,
"La
cura
del
gorilla"
è
il film
che
non
ti aspetteresti,
imperfetto
e bislacco,
ma al
quale
i difetti
si perdonano
in virtù
di una
messa
in scena
supe-
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riore
a ciò
che mette
in scena,
in grado di
riservare
invenzioni,
sorprese,
idee, un po’
tarantiniano,
un po’
hollywoodiano,
un po’
nostrano.
Un film che
dimostra ancora
una volta
che fare cinema
in Italia
è possibile,
che sarebbe
possibile
fare un film
di genere
che non sia
la solida
farsa decerebrata
presa in prestito
dalla tv,
in cui l’intrattenimento
non è
sinonimo di
idiozia ma
convive con
l’impegno
e soprattutto
con il fare
Cinema, con
le sue maestranze,
le sue professionalità,
i suoi talenti.
Come Claudio
Bisio in versione
qui inedita,
meno Zelig
e più
Blade Runner,
con il suo
viso segnato,
il cappotto
stazzonato,
la personalità
duplice. E’
lui Sandrone,
detto il Gorilla,
condannato
a non dormire
mai e a condividere
l’esistenza
con il “suo
socio”,
la sua anima
nera, lui
mite e tranquillo,
l’altro
violento e
risoluto,
entrambi ingaggiati
per investigare
su un losco
omicidio in
una Cremona
dipinta in
toni grottescamente
razzisti.
Intorno a
lui un manipoli
di facce note:
Antonio Catania,
Bebo Storti,
Gigio Alberti,
Stefania Rocca
(la miglior
testimonial
contro le
tette al silicone)
e soprattutto
la partecipazione
straordinaria
di Ernest
Borgnino,
americanizzato
in Borgnine,
ovvero come
avere 90 anni
e non sentirli.
Brillante,
ironico, di
uno spessore
così,
la sua confessione
nella camera
d’albergo
sull’essere
ormai solo
considerato
un vecchio
attore da
rottamare
quando invece
avrebbe dentro
di sé
ancora tanta
voglia di
recitare,
di fare, di
vivere, è
una di quelle
che toccano
il cuore,
sincera, autobiografica,
commovente.
(di Mirko
Nottoli)
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