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"C’era
una volta in America"
- citazione non a
sproposito: un’inquadratura
all’inizio omaggia
il film col medesimo
scorcio dello storico
ponte - la Depressione:
niente soldi e sopravvivenza
a ogni costo. Un tenacissimo
regista (Jack Black
che recita se stesso
versione canaglia
al cento per cento
ma questo gli si richiedeva)
è braccato
dai produttori scontenti
del suo lavoro. Convince
una bell’attrice
senza impiego (Naomi
Watts, sguardo intenso
e sperduto ma attenzione,
non sarà quello
a quietare l’aggressività
del Gorillone) a seguirlo
in viaggio per girare
gli esterni di una
pellicola scritta
dal commediografo
più in voga
del momento (Adrian
Brody, lineare e credibile).
Salpano sulla “Venture”,
corredata di equipaggio
folkloristico - c’è
anche un gustoso sosia
di Popeye - alla volta
di una destinazio- |
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ne
ignota.
Nella
silenziosa
foschia
malaugurante
e dopo
alcuni
giorni
di navigazione,
appare
l’isola
del
Teschio.
Primitiva
culla
della
Natura
che
relega
gli
indigeni
ai margini,
regnando
smisurata
di taglia
e forza.
Peter
Jackson
visita
ancora
la terra
di mezzo
del
fantasy,
genere
sempre
a rischio
di eccessivo
e retorico
schematismo
nonchè
di rapaci
interpretazioni
pseudo-religiose.
Restituisce
e amplifica
le emozioni
primordiali
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che
suscitava
la pellicola
originale,
diretta nel
1933 da Merian
C. Cooper
e Ernest B.
Shoedsack.
Alla vicenda
dello struggente
Quasimodo
gigante della
giungla, aggiunge
pathos in
termini di
evidente disposizione
di mezzi cinematografici,
la cui disamina
sarebbe puro
tecnicismo
ma volentieri
ci si crogiola
nell’altissima
qualità.
Il plusvalore
è la
capacità
di coinvolgimento
empatico:
che ci vuole
a rendere
amabile un
pantagruelico
gorilla solitario?
Forse niente
ma affrancarlo
dal ridicolo
e essere all’altezza
della sfida,
è tutta
un’altra
storia. Ben
raccontata.
Non c’è
nulla lasciato
al caso: ogni
scena, anche
quella più
sbragata (gli
scontri tra
titani sono
esagerati
e intrisi
di quintali
di adrenalina
ma è
lì
che si ritrova
il grande
cineasta di
“Bad
Taste”)
gronda amore
per il cinema
e generosità
di suggestioni.
Convince con
l’unica
chiave possibile:
l’immaginazione
a 360 gradi
tradotta nella
magia della
celluloide.
Non era scontato
riuscirci.
Jackson infila
spericolato
battute come
“I mostri
lasciateli
ai film a
basso costo”
conscio di
aver disatteso
per primo
tale assunto,
ma gli si
renda merito
d’averlo
fatto con
grazia, ironia
e lirismo.
King Kong
non piacerà
ai sofisti
né
ai (f)rigidi.
Si astengano.
Il resto,
si sollazzi
per tre ore:
passeranno
velocissime,
ardenti e
vivide.
(di Daniela
Losini)
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