JARHEAD
 

recensione jarhead

 
Dopo lo spaccato inquietante della nevrotica provincia statunitense ("American Beauty") e l'amara analisi dell'intreccio tra legami familiari e criminalità ("Era mio padre") ritorna Sam Mendes con un film che negli Usa (dopo aver incassato nel primo week-end ben 27.7 milioni di dollari) ha suscitato molte polemiche. La stampa americana ha accusato il regista di non aver preso una netta posizione: "Variety" lo ha rimproverato per mancanza di coraggio, "Hollywood Reporter" "Los Angeles Times" e "Entertainment Weekly" parlano di un risultato ambivalente e gli rimproverano di aver accuratamente evitato di affrontare le implicazioni politiche, il "N.Y. Times" ha mostrato il suo disappunto perché non ha realizzato un'opera dichiaratamente contraria alla guerra. "Jarhead" (letteralmente testa di barattolo, il nomignolo con cui si de-  
 
finiscono i marines per il loro capo rasato) non è molto piaciuto neanche alla critica italiana giudicandolo, per lo più, un film nel complesso inutile ("Cinefile": "alla fine dei conti non ha praticamente nulla da dire - ma in fondo non è fastidioso starlo ad ascoltare"; "FilmUp: "lungo, noioso, grottesco"). Mi permetto di dissentire. Partendo da una dichiarazione del regista inglese ( "Sono arrabbiato, confuso, incerto. Sono più  
a mio agio con le sottigliezze di Jean-Paul Sartre e Samuel Beckett che con le certezze di John Wayne") a me questo film è sembrato una metafora (ottimamente realizzata dal punto di vista tecnico) sulla futilità della guerra in generale e sull'assurdità della mentalità militare. Certo, "Jarhead" non è "Fahrenheit 9/11" e Mendes non è Michael Moore, ma l'opera a cui assistiamo (e a cui si può forse rimproverare l'eccessiva lunghezza) è efficacissima nell'analizzare il machismo tutto muscoli della cultura dei marine, la solitudine esistenziale di chi combatte, i costi fisici e psicologici di chi è al fronte: giovani che si arruolano soprattutto per avere un ruolo nella vita, rissosi, arrapati, sporchi, nervosi, aggressivi, solitari, a volte degenerati, eccitati ma al contempo terrorizzati, addestrati ad uccidere ma sempre pronti a disprezzare le alte sfere il cui atteggiamento ricorda spesso gli imbonitori da luna park. Attraverso lo sguardo del protagonista che diventa adulto in una situazione di caos totale (feroce critica al presunto efficientismo -tanto strombazzato- dei marines) un terribile affresco su chi vive il conflitto tra voglia di sangue e angoscia esistenziale (il film è ispirato al libro autobiografico di Anthony Swoffonrd che racconta la sua esperienza nel primo conflitto mediorientale in Arabia Saudita). Un film intenso, dai sottili intrecci psicologici e che evidenzia al meglio gli orrori e gli errori di ogni tipo di violenza. Visivamente bellissimo (come tutti i film di Sam Mendes) contiene varie scene da antologia. Da ricordarne due in particolare (veri e propri capolavori): la presentazione della famiglia del protagonista, la visione da parte dei soldati di "Apocalypse Now". Ottimi gli interpreti, e tutti illustri: da Jake Gyllehnaal a Peter Sarsgaard, da Chris Cooper a Jamie Foxx.

p.s. Nel film vi è un personaggio che non ha molto rilievo ma che, a mio parere, esprime quello che pensa il regista: un soldato controcorrente che insinua il dubbio nella mente dei suoi compagni spingendoli a interrogarsi sulla politica che ha portato allo scoppio della guerra e a chiedersi il perché della loro presenza al fronte.

(di Leo Pellegrini)

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