IL SOLE
 
 

di Daniela Losini

 

di Federico Raponi

Dopo “Moloch” che poneva al centro dell’analisi la figura di Hitler e “Taurus” quella di Lenin, Sokurov arricchisce la propria personale indagine nelle vite di uomini come controversi simboli del potere, dirigendo “Il Sole” ovvero Hirohito, l’imperatore del Giappone fotografato nel momento della resa agli americani verso la fine della seconda guerra mondiale. Soffocato sotto a rigidissimi riti imperiali – perpetrati senza soluzione di continuità dal pervicace maggiordomo e dalla corte – Hirohito scandisce le proprie lunghissime, interminabili giornate. La sensazione di claustrofobia passa oltre lo schermo esprimendo di fatto la pesantezza psicologica di tale genere di esistenza, scandita dal cerimoniale inflessibile: la riunione coi ministri, il punto della situazione, l’estenuante protocollo che vuole s’indossi un abito per ogni speci-   Mentre Tokio brucia di bombardamenti, l’imperatore Hirohito e’ chiuso tra il bunker ed il suo laboratorio di ricerche sulla fauna ittica, in un‘ astrazione dalla realta’ a tinte spente. In compagnia di incubi, ricordi dell’ album di famiglia, il senso della terribile disfatta, pensieri lontani fino all’ aurora boreale, foto dei divi di Hollywood, una poesia sulla morte che cancella ogni cosa. Col desiderio di comunicare tutto cio’ al figlio, in una desolata considerazione: “non c’e’ nessuno che mi ami ad eccezione di mia moglie e del principe”; perche’ rappresentando il Giappone in quanto discendente della dea Sole Amaterasu - ed egli stesso incarnazione di dio - la gente prova per lui venerazione, cominciando dagli assistenti personali che prendono appunti quando parla, si prodigano in rituali, inchini a 90 gradi, inginocchiamenti, addirittura l’ harakiri
 
 
 
fica occasione, la totale mancanza di solitudine. Piccolo uomo tramite di potere assoluto alle prese con decisioni terrorizzanti: s’intuisce la genesi del fenomeno dei kamikaze, la disperazione per la famiglia allontanata per la salvezza e nei tic l’ossessione per la morte che sfocia in incubi terrificanti dove gli attacchi dei nemici sono rappresentati da uccelli deformi che depositano uova di distruzione. L'incontro ufficiale col generale americano (e prima ancora coi soldati che curiosano fuori dal bunker nel quale è protetto Hirohito: egli appare e subito lo scambiano per un clone di Charlie Chaplin, figura che l’imperatore ben conosce e della quale pare nutrirsi) è alquanto signficativo: noioso nella banalità dell’imbarazzo, preciso e realistico quando suggerisce che i potenti svestiti dell’aura che li circonda non sono che ometti al servizio delle proprie idiosincrasie e meschinità. Hirohito rinunciò allo stato di divinità e dichiarandosi uomo potè sottoporsi alle leggi della società civile e perdere. Si suggerisce che Pearl Harbour, Hiroshima e Nagasaki furono un imprevisto, che nessuno diede l’ordine, pulendosi così la coscienza sporca degli orrori di tale portata. Estraniante e ostico viaggio nei meandri del potere. Pura metafora al servizio del racconto storico.




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  di chi doveva comunicare al popolo il messaggio di resa. E se lo stato maggiore dell’ esercito e’ disposto a resistere fino all’ ultimo uomo, Hirohito recrimina invece per non essere riuscito a fermare la guerra. Inoltre, suscita in lui ulteriore cruccio una pace non a qualsiasi prezzo, mentre questo sembra molto gravoso; la capitolazione e’ infatti contraria allo spirito della casa imperiale e della nazione. In una personale interpretazione evoluzionistica, si impone percio’ uno sviluppo della specie a partire da se’. Egli rinuncia così alla “scomodita’” della natura divina rifiutando il destino, ed accetta la resa incondizionata in nome della prosperita’ della popolazione. Due decisioni storiche, maturate in un tavolo di trattative con il generale statunitense Douglas MacArthur, il quale, illustrando efficacemente il pragmatismo e la semplicita’ del proprio paese, rimarca le enormi differenze tra i due mondi che si trovano uno di fronte all’ altro, e deve anche decidere se far processare l’ imperatore come criminale di guerra. L’ orgoglio nazionale nipponico resta comunque tuttora tabu’, viste le minacce di morte giunte in patria al protagonista e agli esercenti. Quella di Aleksandr Sokurov e’ una vasta filmografia - soprattutto documentaristica - di cui pochissimo arrivato nelle sale italiane. Prima di dare sbalorditiva dimostrazione di maestria tecnica in “Arca russa” con un unico piano sequenza di 98 minuti dirigendo 3 mila comparse, egli gia’ si era dedicato a uomini alla guida delle maggiori potenze globali, decisivi nel secolo scorso (Hitler in “Moloch” e Lenin in “Taurus”). A Sokurov, per sua stessa ammissione, interessa il carattere, determinante sulle azioni piu’ delle circostanze. E, complice la recitazione di Ossey Ogata (sebbene fin troppo caricaturale nei tic), sa dare con mano aristocratica un manto elegiaco ad un Hirohito impacciato, fragile, viziato, dalla purezza fanciullesca.

 
 
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