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Dopo
“Moloch”
che poneva al
centro dell’analisi
la figura di
Hitler e “Taurus”
quella di Lenin,
Sokurov arricchisce
la propria personale
indagine nelle
vite di uomini
come controversi
simboli del
potere, dirigendo
“Il Sole”
ovvero Hirohito,
l’imperatore
del Giappone
fotografato
nel momento
della resa agli
americani verso
la fine della
seconda guerra
mondiale. Soffocato
sotto a rigidissimi
riti imperiali
– perpetrati
senza soluzione
di continuità
dal pervicace
maggiordomo
e dalla corte
– Hirohito
scandisce le
proprie lunghissime,
interminabili
giornate. La
sensazione di
claustrofobia
passa oltre
lo schermo esprimendo
di fatto la
pesantezza psicologica
di tale genere
di esistenza,
scandita dal
cerimoniale
inflessibile:
la riunione
coi ministri,
il punto della
situazione,
l’estenuante
protocollo che
vuole s’indossi
un abito per
ogni speci- |
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Mentre
Tokio brucia
di bombardamenti,
l’imperatore
Hirohito e’
chiuso tra il
bunker ed il
suo laboratorio
di ricerche
sulla fauna
ittica, in un‘
astrazione dalla
realta’
a tinte spente.
In compagnia
di incubi, ricordi
dell’
album di famiglia,
il senso della
terribile disfatta,
pensieri lontani
fino all’
aurora boreale,
foto dei divi
di Hollywood,
una poesia sulla
morte che cancella
ogni cosa. Col
desiderio di
comunicare tutto
cio’ al
figlio, in una
desolata considerazione:
“non c’e’
nessuno che
mi ami ad eccezione
di mia moglie
e del principe”;
perche’
rappresentando
il Giappone
in quanto discendente
della dea Sole
Amaterasu -
ed egli stesso
incarnazione
di dio - la
gente prova
per lui venerazione,
cominciando
dagli assistenti
personali che
prendono appunti
quando parla,
si prodigano
in rituali,
inchini a 90
gradi, inginocchiamenti,
addirittura
l’ harakiri
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fica
occasione, la
totale mancanza
di solitudine.
Piccolo uomo
tramite di potere
assoluto alle
prese con decisioni
terrorizzanti:
s’intuisce
la genesi del
fenomeno dei
kamikaze, la
disperazione
per la famiglia
allontanata
per la salvezza
e nei tic l’ossessione
per la morte
che sfocia in
incubi terrificanti
dove gli attacchi
dei nemici sono
rappresentati
da uccelli deformi
che depositano
uova di distruzione.
L'incontro ufficiale
col generale
americano (e
prima ancora
coi soldati
che curiosano
fuori dal bunker
nel quale è
protetto Hirohito:
egli appare
e subito lo
scambiano per
un clone di
Charlie Chaplin,
figura che l’imperatore
ben conosce
e della quale
pare nutrirsi)
è alquanto
signficativo:
noioso nella
banalità
dell’imbarazzo,
preciso e realistico
quando suggerisce
che i potenti
svestiti dell’aura
che li circonda
non sono che
ometti al servizio
delle proprie
idiosincrasie
e meschinità.
Hirohito rinunciò
allo stato di
divinità
e dichiarandosi
uomo potè
sottoporsi alle
leggi della
società
civile e perdere.
Si suggerisce
che Pearl Harbour,
Hiroshima e
Nagasaki furono
un imprevisto,
che nessuno
diede l’ordine,
pulendosi così
la coscienza
sporca degli
orrori di tale
portata. Estraniante
e ostico viaggio
nei meandri
del potere.
Pura metafora
al servizio
del racconto
storico.
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di chi doveva
comunicare al
popolo il messaggio
di resa. E se
lo stato maggiore
dell’
esercito e’
disposto a resistere
fino all’
ultimo uomo,
Hirohito recrimina
invece per non
essere riuscito
a fermare la
guerra. Inoltre,
suscita in lui
ulteriore cruccio
una pace non
a qualsiasi
prezzo, mentre
questo sembra
molto gravoso;
la capitolazione
e’ infatti
contraria allo
spirito della
casa imperiale
e della nazione.
In una personale
interpretazione
evoluzionistica,
si impone percio’
uno sviluppo
della specie
a partire da
se’. Egli
rinuncia così
alla “scomodita’”
della natura
divina rifiutando
il destino,
ed accetta la
resa incondizionata
in nome della
prosperita’
della popolazione.
Due decisioni
storiche, maturate
in un tavolo
di trattative
con il generale
statunitense
Douglas MacArthur,
il quale, illustrando
efficacemente
il pragmatismo
e la semplicita’
del proprio
paese, rimarca
le enormi differenze
tra i due mondi
che si trovano
uno di fronte
all’ altro,
e deve anche
decidere se
far processare
l’ imperatore
come criminale
di guerra. L’
orgoglio nazionale
nipponico resta
comunque tuttora
tabu’,
viste le minacce
di morte giunte
in patria al
protagonista
e agli esercenti.
Quella di Aleksandr
Sokurov e’
una vasta filmografia
- soprattutto
documentaristica
- di cui pochissimo
arrivato nelle
sale italiane.
Prima di dare
sbalorditiva
dimostrazione
di maestria
tecnica in “Arca
russa”
con un unico
piano sequenza
di 98 minuti
dirigendo 3
mila comparse,
egli gia’
si era dedicato
a uomini alla
guida delle
maggiori potenze
globali, decisivi
nel secolo scorso
(Hitler in “Moloch”
e Lenin in “Taurus”).
A Sokurov, per
sua stessa ammissione,
interessa il
carattere, determinante
sulle azioni
piu’ delle
circostanze.
E, complice
la recitazione
di Ossey Ogata
(sebbene fin
troppo caricaturale
nei tic), sa
dare con mano
aristocratica
un manto elegiaco
ad un Hirohito
impacciato,
fragile, viziato,
dalla purezza
fanciullesca.
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