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recensione il
mio miglior nemico
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“Vorrei che
Il mio miglior nemico
potesse essere considerato
tra i migliori film
di Carlo Verdone:
7 stesure, praticamente
un anno e tre mesi
dedicati interamente
al lavoro di scrittura,
un copione di 130
scene girate tra Roma,
Sabaudia, il Lago
di Como, Ginevra,
Istanbul… che
hanno significato
notti freddissime,
neve, pioggia, sveglia
alle 6 del mattino
per tre mesi. Per
questo non mi perdonerei
di sbagliare un film
costato così
tanta fatica: ma non
lo sbaglierò”.
Il nuovo film di Verdone
è una riuscita
a metà. Una
prima parte diverte,
vicina al miglior
cinema del nostro,
una seconda più
sfilacciata, zoppicante.
Lo scontro generazionale
Verdone-Muccino richiama
alla mente la lotta
titanica portata sullo
schermo da Ronny Yu
e Paul WS Anderson
rispettivamente con
Freddy vs Jason e
Alien vs Predator.
Dove c’è
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quel
vs intimidatorio
ma anche
sbanca-botteghini
(Il
mio
miglior
nemico
ha incassato
800
mila
euro
in un
solo
weekend!).
Purtroppo
l’incontro
di Verdone
(regista,
sceneggiatore
e interprete
di venti
film)
con
De Laurentiis
non
si è
rivelato
del
tutto
soddisfacente.
I personaggi,
in alcuni
momenti,
sembrano
usciti
da uno
di quei
squallidissimi
cine-panettoni
griffati
Boldi-De
Sica,
e alcune
gag
non
suscitavano
grasse
risate
nep-
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pure
al tempo di
Pierino e
Montagnani,
figuriamoci
adesso. Ma
il vero limite
del film sta
nella sceneggiatura:
i difetti
maggiori sono
proprio l’evidente
discontinuità
narrativa
e il non portare
a termine
ciò
che si è
iniziato.
Personaggi
che avevamo
incontrato
all’inizio
scompaiono
senza lasciar
traccia. Addirittura
la figura
del professore
non appare
mai senza
per questo
essere funzionale
alla storia.
Tagliato nel
montaggio
finale? Il
Verdone neo-sociologico
non si dimentica,
comunque,
di analizzare
una delle
tematiche
a lui più
care dai tempi
di Compagni
di scuola,
ovvero il
rapporto genitori-figli
e, soprattutto,
l’abbandono
di questi
ultimi da
parte dei
primi. Il
suo film sembra
voler esprimere
soprattutto
il desiderio
e la necessità
di condivisione
dell’esistenza
tra due persone
diversissime:
Orfeo, ragazzo
del popolo
aggressivo
e un po’
incosciente,
e Achille,
piccolo borghese
pavido, ipocondriaco
e un po’
vigliacco.
E in questo
senso il suo
ritratto di
personaggi
soli, alienati,
funziona nella
misura in
cui lo sguardo
garbato si
fa partecipazione
sensibile.
Il personaggio
interpretato
da Verdone
è un
ritratto che
conferma una
salda consapevolezza
da parte dell’attore
della propria
misura d’interprete.
Mentre Benigni
si crede Pinocchio
e raggiunge
la sua amata
in Iraq, Verdone
regista tira
le fila dei
racconti umani
soffermandosi
un po’
più
del solito
sul dolore.
Di una certa
drammaticità
è proprio
lo scontro
tra un Muccino
disperato
e isterico
e sua madre,
sempre più
imbottita
di psicofarmaci,
inaffidabile
e ladra. Altro
momento topico
lo si ha quando
al padre assente
viene spiegato
dal giovane
nemico che
la poesia,
intitolata
“Cenere”,
scritta da
sua figlia
in “Memorie
di una viaggiatrice
distratta”,
è rivolta
proprio a
lui e non
fa che commemorare
un’assenza
d’affetto
che l’ha
spinta a fuggir
via. Niente
di particolarmente
originale,
certo, ma
un tentativo
di raccontare
la vita di
oggi senza
dover calcare
i riflessi
condizionati
del cinema
spettacolo.
Peccato che
la parte conclusiva
del racconto
scivoli verso
risvolti prevedibili
e un finale
semiconsolatorio
che non convince.
Il mio miglior
nemico è
un film che
tenta ma non
riesce a fuoriuscire
dalle secche
del film italiano
“medio”,
anestetizzato
nello stile
e nelle emozioni
che non trasmette.
Non si pretendeva
certo un film
visivo. Tuttavia
permane la
convinzione
che il regista
italiano,
in questo
momento, sia
un personaggio
sostanzialmente
afono, in
grado d’immaginare
ma quasi incapace
di pronunziare
verbo.
(di Bruno
Trigo)
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