L'IGNOTO SPAZIO PROFONDO
 

- recensione -

 
Per Werner Herzog, gli alieni sono tra noi. Niente paura: non hanno alcuna intenzione di conquistare la Terra, né di sterminarci tutti; e neppure ci vogliono rapire, per poi esporci nei loro zoo andromediani (dopotutto, ci assomigliano molto). Anzi, come amici premurosi, ci vogliono avvertire: il percorso che l’umanità ha intrapreso è pericolosamente simile a quello che li ha condotti alla rovina. Il doloroso racconto dell’alieno-Cassandra, interpretato dal convincente Brad Dourif, è il filo rosso che attraversa il nuovo film del regista bavarese, “L’Ignoto Spazio Profondo”. La cronologia che si dipana dalle parole dell’Alieno è volutamente fluida - “caotica”, come direbbe uno dei matematici NASA del film; per lo spettatore diventa difficile non solo inquadrare temporalmente gli eventi, ma anche solo distinguere la testimo-  
 
nianza (pseudo)storica del passato dalla profezia, e perfino dalla semplice ipotesi. Gli alieni, in un quando imprecisato, giunsero sulla Terra provenienti da Wild Blue Yonder, un inimmaginabile pianeta di elio liquido ghiacciato, divenuto ormai inabitabile per la loro razza. Qui, provarono tenacemente a ricostruirsi una civiltà, parallela alla nostra e a noi invisibile: ma senza riuscirci. E ora che il genere umano si è reso  
conto che la Terra sta implodendo - come in una sorta di reazione allergica planetaria alla sua presenza - comincerà anche per noi la disperata ricerca di una nuova casa, da qualche parte nello spazio: un drammatico vagabondaggio interstellare, che porterà un manipolo di astronauti pionieri proprio su Wild Blue Yonder. L’opera di Herzog è un’ambiziosa “finzione”, che di borgesiano purtroppo non ha molto. Il regista si propone di costruire una vicenda storicamente attendibile, partendo da dati fittizi. Per inferire più verosimiglianza, si fa uso abbondante di autentici filmati NASA (modellati, naturalmente, secondo le esigenze della sceneggiatura) e di autentiche interviste a scienziati della medesima: nelle quali, ci vengono illustrate autentiche teorie fisico-matematiche, per quanto riguarda i viaggi nello spazio-tempo. Ma un conto è creare una Storia tramite la letteratura (molto più adatta, per struttura, alla finzione), un conto è farlo tramite la cinematografia. Per quanto ammirevole lo sforzo, infatti, non possiamo farci convincere da un Alieno con la coda di cavallo; da veri astronauti che ingollano cibi liofilizzati nella claustrofobia di uno shuttle, pretendendo di essere chissà dove nella Via Lattea; da un matematico nippoamericano che ci spiega la teoria dei “chaotic tunnels” – che, peraltro, assomiglia maledettamente a quella asimoviana del “balzo iperspaziale”. Insomma: inventarsi un improbabile futuro, mettendo insieme pezzi (solo parzialmente veri) di presente, si è rivelato un compito troppo oneroso. Oltre a questo limite, per così dire, filosofico, ne abbiamo individuati altri. Il film troppo spesso eccede nel lirismo fine a sé stesso: e, detta sinceramente, le panoramiche stellari con poderoso contorno musicale ce le aveva già fatte vedere Kubrick. Herzog è stato sicuramente originale nella scelta degli interpreti: la musica tradizionale sarda al posto di Strauss è un atto di coraggio. Che non ci sentiamo di premiare appieno: alcuni passaggi (quelli dell’astronave, soprattutto) sono eccessivamente prolissi, al limite del sopportabile. Strepitose, invece, le (finte) riprese del Wild Blue Yonder. Per rendere al meglio il “cielo ghiacciato” e l’atmosfera di elio liquido del pianeta, Herzog si è affidato, con ogni probabilità, al pack e ai paesaggi subacquei dell’Artide: e, grazie all’utilizzo quasi surrealista dei filtri, la fotografia è di una bellezza elettrica. Non basta, tuttavia.

(di Paolo Cola)

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