L'EDUCAZIONE FISICA DELLE FANCIULLE
 

- recensione -

 
Sugli scampoli di una sceneggiatura scritta da Alberto Lattuada prima della sua scomparsa, rimaneggiata da Ottavio Jemma e poi ancora da James Carrington e Sadie Jones (ispirata all’omonimo romanzo di Frank Wedekind) Irvin imbastisce una pellicola dalle tinte fosche che ricordano “Magdalene” ma che sfocia in una deriva puramente estetica dal gusto sadico/perverso, annunciata dalla scena iniziale con le scarpette da ballo insanguinate. Siamo agli inizi del novecento e in un collegio dalle rigidissime regole, boccioli di ragazze vengono educate tramite punizioni e inflessibili imposizioni. Per contro imparano a farsi compagnia con acerbi e dolci amori saffici, isole di tenere necessità di affetto. Le poverine ignorano che il collegio non è altro che una riserva di corpi cui attingono ricchi  
 
nobili decadenti di casato e di maniere e che godono nell’imbrattare la purezza delle giovani rosee fanciulle. La matrona che gestisce il vivaio è gelida quanto corrotta di sensibilità (sorta di Barbablu in gonnella, Jacqueline Bisset, perfetta) assistita dalle vigilatrici che ne perpetrano il verbo e lo stile di ghiaccio coltivando sotterranei rancori e invidie (Eva Grimaldi nei panni della sorvegliante incute realmente timore) contrap-  
poste alla dolcezza di Galatea Renzi l’unica a mostrare un minimo di umanità. Il collegio degli orrori sarà presto teatro di un’indagine (una ragazzina curiosa negli archivi segreti che contengono le loro identità e misteriosamente scompare) ma le maglie dei desideri traviati sono tentacolari e sarà complicato arrivare alla verità. Disturbante non nella pura esecuzione dei rituali di autoritarismo che si esprimono in ogni gesto (il più fastidioso è quello a opera della vecchiaccia che per testare la freschezza fisica delle giovani, le palpa come fossero quarti di bue) quanto nell’eccessivo autocompiacimento nelle scene più crudeli: l’aggressione dei cani, lo stupro del principe. L’incapacità a darsi la misura della malvagità, non dosata scade nella didascalia sterile e nel puro esercizio di stile, rendono l’effetto estraniante e non coinvolgente. Niente finale rassicurante ma nemmeno zampate di graffiante profondità a regalare volonterosa partecipazione.

(di Daniela Losini )

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