CRASH - CONTATTO FISICO
 

recensione crash - contatto fisico

 
In una città dove di angeli è rimasto solo il nome, coacervo di razze e religioni in preda all’odio, al caos e al delirio, in una città dove al commissariato di polizia campeggia la foto incorniciata di Arnold Schwarzenegger, lungo le cui strade l’unico contatto fisico concesso alle persone è lo scontro, l’aggressione, il crash dell’impatto o il bang dello sparo, vivere o morire non fa molta differenza. Vivere o morire a Los Angeles, appunto, dove si muovono undici personaggi destinati a incrociare drammaticamente le rispettive esistenze nelle trentasei ore che seguiranno. Paul Haggis, già sceneggiatore di “Million Dollar Baby” qui scrive, dirige e produce una pellicola (costata appena 35 giorni di riprese e 6 milioni di dollari, a fronte di un cast “all star” in cui mi permetto di segnalare Jennifer Esposito – gran donna!) in cui ritroviamo lo stesso senso tragico e  
 
dolente della condizione umana che contrassegnava in modo indelebile anche l’opera precedente. Protagonista indiscussa, una Los Angeles feroce e dissennata che nella coralità della trama evade i propri limiti per diventare paradigma di un mondo occidentale che vede le sue periferie bruciare, alle prese con irrisolti problemi di immigrazione e integrazione, costretto a ridiscutere i propri parametri morali  
ormai insufficienti a interpretare e gestire il reale. Già vincitore di svariati premi nei festival dedicati al cinema indipendente, “Crash” è più che mai un film sulle “sfumature” (nel senso più ampio del termine, non solo del colore della pelle), sulla relatività di giudizio, su sguardi incrociati che devono guardare bene prima di saltare alle conclusioni, un film che solo un automatico ricorso all’incontro casuale e ad un eccessivo precipitare di eventi in chiave drammatica, impedisce di farne un vero capolavoro. Un film sulle sfumature in quanto in un circolo vizioso, in un cane che si morde costantemente la coda com’è una società che combatte il crimine ma nello stesso tempo alimenta la povertà, che reprime senza riabilitare, che si limita a nascondere lo sporco sotto il tappeto, diventa difficile capire chi sta davanti e chi dietro, chi è vittima e chi carnefice, chi perseguita e chi è perseguitato, soprattutto in una guerra combattuta tra poveri esasperati da una condizione immobile in cui i confini tra giusto e sbagliato si assottigliano fin quasi a scomparire. Eppure nonostante tutto, nonostante i dolori e le tragedie, nonostante le ingiustizie e i tradimenti, gli uomini continuano ad andare avanti, a trovare un motivo, a cercare la felicità nelle piccole cose, anche un fuoco fatuo in mezzo alla disperazione più nera. Ecco allora il poliziotto sadico e razzista Matt Dillon (che per l’ennesima volta si conferma bravo come attore e intelligente e sensibile nella scelta di ruoli e copioni) che prima infierisce sulla bella signora di colore e poi, solo qualche ora dopo, rischia la vita per salvarla e compiere il suo dovere. Ecco allora il piccolo criminale afro-americano che si redime nel senso di colpa e libera un carico di filippini destinati ad essere venduti come schiavi. Ed ecco ancora, nel finale, che quando il cellulare suona, complice una nevicata romantica e salvifica, il ricco regista nero in crisi d’identità prima ci pensa e poi a quella chiamata risponde. Questione di coscienza. E’ tutta e solo questione di coscienza. Solo su di essa si può fare affidamento aggrappandosi come al bene più prezioso. Perché solo finché ci saranno persone di coscienza allora si può continuare a sperare che una via di salvezza, per questa umanità alla deriva, ci sia e sia possibile percorrerla. Alcune, ancora, ce ne sono. Poche. Forse abbastanza.

(di Mirko Nottoli )

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