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Kim Ki Duk è
una fucina di capolavori,
sebbene solo la sua
vena più recente
sia stata bagnata
da un successo concorde
di critica e pubblico.
Già eroe di
piccoli e grandi festival,
soprattutto europei,
in passato, quando
la sua cinematografia
era molto diversa
e maggiormente emotiva,
ora sta procedendo
attraverso un percorso
verso la massima estrazione.
Come ha dichiarato
in una recente intervista
“il mio scopo
è arrivare
a rendere protagonista
di un mio film una
sola persona. Anzi,
nemmeno. Degli oggetti.
Credo proprio sia
possibile”.
Bene ne "L’arco",
sempre che questa
non sia una delle
sue numerose provocazioni,
non solo intellettuali,
questo processo sembra
essere partito. Già,
perché se la
casa, anzi le case
vuote, rappresentavano
un elemento essenziale
di "Ferro 3",
pur essendo una chiara
metafora, su più
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piani,
politica
e sociale,
qui
l’arco
in questione
è
un appendice,
un alter
ego
dell’anziano
protagonista.
Come
si vedrà
alla
fine,
in tutto
e per
tutto.
E proprio
a questo
strumento
di aggressione
e persino
di predizione
del
futuro,
che
diventa,
poi,
anche
musicale
e mezzo
attraverso
cui
esprimere
e fare
l’amore,
sono
affidati
i momenti
più
intensi
e significativi
di un
film
tra
i meno
felici-
ma pur
sempre
di alto
livello
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-del
cineasta coreano.
L’autore,
straordinariamente
prolifico,
per quantità
e qualità,
in questo
caso, forse,
esagera. Tutta
la pellicola
ha avuto bisogno
di soli 17
giorni di
lavorazione
e questa velocità
sembra evincersi
anche dalla
sceneggiatura,
più
elementare
e ammiccante
del solito.
In questo
senso è
molto interessante
valutare l’ultima
produzione
di Kim Ki
Duk. La distribuzione
italiana –
l’ottima
Mikado, da
sempre, insieme
alla Bim,
pilastro in
Italia del
cinema di
qualità
contemporaneo-
infatti, non
ne ha osservato
la cronologia
esatta. "L’arco,
infatti",
viene subito
dopo "Ferro
3", a
sua volta
preceduto
dal più
esplicito
"La Samaritana"
e dall’irragiungibile
"Primavera,
Estate, Autunno,
Inverno…
e ancora primavera".
Questo sembrerebbe
segnare un
chiaro percorso
artistico,
in cui film
più
espressionisti
si alternano,
quasi scientificamente,
a quelli più
spirituali
e allusivi.
La storia
è quella
di una vita
solitaria
di una giovane
bambina (ancora
la dolcissima
e sensuale,
dobbiamo dirlo
rischiando
di commettere
un reato,
“samaritana”
Han Yeo-reum)
con un vecchio
amorevole,
sopra una
barca. Il
rapporto ambiguo
tra i due
viene sfidato
dall’arrivo
di un giovane
ospite, il
quale, non
del tutto
consapevole,
provocherà
il precipitare
dell’ovattato
equilibrio
di molti anni,
svelando dure
verità
e suscitando
reazioni inaspettate.
Notevoli le
scene conclusive,
il film scorre
facilmente,
con una struttura
narrativa
fin troppo
elementare
per il genio
sudcoreano.
Difficile
muovere una
critica a
chi, come
lui, riesce
a regalare
eccezionali
momenti di
cinema, opere
che sono sempre
di altissimo
spessore artistico
e culturale.
Ma, si sa,
con chi ha
capacità
per toccare
alte vette,
bisogna essere
più
attenti e
severi. Ciò
non toglie
che il film
sia assolutamente
da vedere
e che la regia
è sempre
delicata e
sensibile,
oltre che
originale
e talentuosa.
Dispiacerebbe
solo intuire
in alcune
parti indizi
di stanchezza
o, peggio,
di troppa
attenzione
verso un facile
successo di
pubblico.
Probabilmente
no, ma dovere
di un critico,
di un amante
del cinema
e, in questo
caso, di un
fervente ammiratore
del lavoro
altrui, è
anche quello
di indicare
pericoli di
strade piene
di tentazioni.
Lars Von Trier
docet. Un
ultimo, essenziale
chiarimento:
il peggiore
Kim Ki Duk
degli ultimi
quattro anni,
rimane sempre
tra quei pochissimi
lavori di
eccellenza
da segnalare.
(di Boris
Sollazzo)
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