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ALL
THE INVISIBLE CHILDREN |
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recensione all
the invisible
children
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Tutto l’universo
infantile è
concentrato in questa
pellicola a più
mani, firmata da alcuni
dei nomi più
prestigiosi del panorama
filmico contemporaneo;
è questa la
vera nota lieta di
un progetto che, anche
per via della sua
indiscutibile difficoltà
sintetica, riesce
a soddisfare soltanto
in parte le aspettative
dell’immaginario
spettatoriale. Il
lavoro, frutto del
montaggio di sette
differenti episodi,
si propone di portare
sullo schermo la sofferenza,
troppo spesso ignorata,
di molti bambini,
bersagli più
facilmente centrabili
da parte della cieca
indifferenza, frutto
di una società
consumistica sempre
più ampollosa
e sempre meno equa.
E lo fa scandagliando
ogni realtà
di un mondo in cui,
senza differenza di
etnia e di status
sociale, l’imperturbabile
mano della noncuranza
condanna all’agonia
eterna con il cinismo
di un giudice indif- |
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ferente.
Si passa,
quindi,
dalla
storia
di Tanza,
dodicenne
guerrigliero
africano
ritratto
da Mehdi
Charef,
a quella
del
piccolo
gitano
redento,
frutto
della
genialità
nazional-popolare
di Kusturica;
passando
per
la Blanca
di Spike
Lee,
adolescente
sieropositiva
figlia
di genitori
tossicodipendenti,
e per
Bilu
e João
di Katia
Lund,
giovanissimi
ragazzini
brasiliani
che
sfruttano
la loro
volontà
per
sopravvivere.
Senza
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tralasciare
il viaggio
ipnotico nell’infanzia
del Jonathan
di Jordan
e Ridley Scott,
la difficile
realtà
partenopea
con la quale
si trova costretto
a fare i conti
il Ciro di
Stefano Veneruso
e la duplice
storia di
speranza delle
piccole Song
Song e Little
Cat, portata
sugli schermi
da John Woo.
In questo
eterogeneo
quadro d’insieme,
il filo conduttore
di piccole
esistenze
spezzate è
permeato,
seppur in
maniere differenti,
da una patina
di malinconico
senso di colpa
che, indipendentemente
dalla sensibilità
singolare,
dovrebbe percuotere
l’animo
di ogni spettatore,
parte in causa,
volente o
nolente, di
un crescente
meccanismo
autodistruttivo.
Dovrebbe,
appunto. Perché,
invece, spesso
e volentieri
si ha la sensazione
di assistere,
più
che alle conseguenze
di realtà
sociali degradate,
a delle storie
drammatiche
fine a sé
stesse, concertate
senza tenere
conto della
finalità
ultima di
lasciare un
segno indelebile
nella memoria
dell’immaginario
collettivo.
Eccettuando
gli episodi
di Lee, degli
Scott e di
Woo, negli
altri la forza
della memorabilità
sembra farsi
sentire troppo
tiepidamente
per imprimere
un impatto
shockante
nella coscienza
collettiva.
Con il solo
risultato
che, una volta
riaccesesi
le luci e
lasciata la
sala, l’invisibilità
di queste
piccole vittime
sacrificali
è resa
chiara con
un bagliore
troppo fioco
per poterne
discernere
l’essenza
profonda.
(di Marco
Visigalli)
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