ZODIAC
 

zodiac recensione

 
David Fincher si potrebbe definire “uno con le palle”. Anche se dopo Seven e Fight Club non è mai più riuscito a ripetersi a quei livelli. Ci prova ma non ci riesce nemmeno con Zodiac, tuttavia, pur nella imperfezione, dimostra sempre di avercele, le palle. Maniacale, ossessivo, si narra che una semplice scena di conversazione sia stata rifatta 56 volte. Ma pare sia la norma, per lui, considerato che le prime 17 le cestina in automatico (ci vogliono circa 17 riprese prima che un attore perda il fervore con cui si è preparato per quella scena – dice). Scelte controcorrente e impopolari, allergia a regole di produzione e moralismi, un’innata capacità di muovere la macchina da presa. In Zodiac si permette di realizzare due film in uno, di dilatare il primo per due ore fin quasi a farlo (e farci) addormentare, per poi, giunti a un  
 
punto morto, accelerare e ripartire di slancio con il secondo, con la sorpresa in chi guarda di vedere riniziare un film quando sembrava già finito. Quanto il primo ha un ritmo lento e disteso, il secondo è serrato e teso, essenziale. Se qualcuno avesse capito il perchè di questa cesura, ce lo spieghi pure. Si racconta la storia vera di Zodiac, uno dei più famosi serial killer degli Stati Uniti. Tra il 1969 e il 1974 ha ucciso  
5 persone (tutte giovani donne) anche se lui se ne attribuisce molte di più, sfidando la polizia con lettere e codici cifrati da decriptare sui suoi successivi colpi. Non fu mai catturato e intorno a lui crebbe un mito: forse non tutti sanno che Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo è ispirato a quella vicenda (si ricordi lo scuolabus pieno di bambini). Alla base del film vi sono due libri scritti da uno dei protagonisti della storia, Robert Graysmith, un impacciato vignettista che rimase talmente ossessionato dallo scoprire la vera identità del killer da perderci quasi il senno, oltre che moglie e figli. Al di là delle premesse, il lato thriller della pellicola langue; alcune sequenze sono ineccepibili (come quella dello scantinato) ma non è su suspense e azione al cardiopalma che punta il regista, quanto su la ricostruzione storica e sociale, condotta attraverso un lavoro certosino d’archivio e di documentazione. Partecipano a questo imponente affresco corale un nutrito cast di attori, molti dei quali ritrovati, nei panni degli attori che furono: Jake Gyllenhaal è il già citato Robert Graysmith; Mark Ruffalo e Anthony Edwards sono Dave Toschi e William Armstrong, i due poliziotti a caccia dell’omicida; Robert Downey jr. è il reporter Paul Avery. E inoltre: Chloe Sevigny, Adam Goldberg, Brian Cox, Elias Koteas. Il film avrà il suo finale ma ben poche risposte e tante ombre e tante incongruenze continueranno a persistere tra i buchi di una sceneggiatura dai risvolti talvolta grotteschi che se non fosse vera si taccerebbe di debolezza. L’audacia di Fincher gli è qui fatale, come quasi sempre accade quando si è audaci più per onor di firma che per reali esigenze artistiche, e di esigenze artistiche che possano giustificare le oltre due ore e mezza di proiezione, con una prima parte che la tira per le lunghe anche quando ha già esaurito tutti gli argomenti, non ne abbiamo vista nemmeno una. La vera rivoluzione è non cambiare il mondo. Che Fincher ha le palle lo sappiamo, non ce lo deve dimostrare per forza ogni volta. Anche se Seven dovesse rimanere ineguagliato per sempre.

(recensione di Mirko Nottoli )

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