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workingman's death
recensione
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Mentre secondo le
teorizzazioni di qualche
profeta dell’era
digitale il nuovo
secolo dovrebbe segnare
la fine del lavoro
materiale (‘workingman’s
death’, per
l’appunto),
nel presente invece
seguiamo questo documentario
in cinque miseri angoli
del pianeta, uniti
in un medesimo e globale
girone di (con)dannati
alla fatica. L’inizio
è d’impatto,
con immagini di repertorio
sui più produttivi
minatori sovietici
(i quali giurano –
nel tono solenne della
retorica propagandistica
– che faranno
sempre meglio), con
la base musicale di
John Zorn simulante
un pesante e ossessivo
ritmare metallico-industriale,
con una citazione
da William Faulkner
(“non si può
bere, mangiare, far
l’amore per
8 ore di fila. L’unica
cosa possibile è
lavorare. Per questa
ragione gli esseri
umani rendono infelici
se stessi e gli altri”).
Si parte da Donbass,
Ucraina, |
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dove
“l’università
non
serve”
perché
“non
si trova
lavoro”.
Le vecchie
miniere
statali
di carbone
sono
ormai
chiuse,
e qualcuno
scava
colline
per
estrarre
un sacco
al giorno
di ‘preziosa’
materia
nera.
Altri,
in gruppo,
aprono
pozzi
illegali
dove
strisciano,
picconano,
mangiano
e fumano
in cunicoli
alti
neanche
un metro,
e la
sera
sono
talmente
stanchi
da non
poter
neanche
vedere
la TV
insieme.
L’orizzonte
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è così
vicino e circolare
che novelli
sposi, dopo
la cerimonia
nuziale, vanno
a portare
mazzi di fiori
alla statua
di Alexei
Stachanov,
leggendario
minatore-eroe
che la storica
notte del
31 Agosto
1935 tirò
fuori dal
ventre della
Terra 102
tonnellate
di carbone
in un solo
turno e divenne
sinonimo di
spirito di
sacrificio.
Spostandoci
nel cratere
del vulcano
Kawa Ljen
a Giava, tra
fiammelle
azzurre, gialle
nubi e turisti
c’è
chi raccoglie
zolfo da caricare
sulle spalle
per andarlo
a vendere.
Con maglietta
dell’interista
Vieri, passione
per le canzoni
di Bon Jovi
e Scorpions
(ma i CD sono
un miraggio,
perché
troppo costosi),
racconti su
risse e prostitute
che saranno
il premio
dopo una dura
giornata.
Dall’Indonesia
all’Africa.
A Port Harcourt,
Nigeria, si
aggira uno
sgozzatore
(fino a 350
capi al giorno)
nel mattatoio
di piazza
che riecheggia
delle grida
disperate
di vacche
e capre, bagnato
dal sangue,
disseminato
di carcasse
spellate e
fatte a pezzi,
avvolto dal
nero fumo
dei copertoni
sui quali
vengono poi
arrostiti
gli animali.
Si passa quindi
in Pakistan,
ad assistere
all’attività
pericolosa
dei demolitori
di vecchie
navi a Giddani
(“questo
lavoro è
la morte stessa”,
dice uno di
loro), armati
di fiamme
ossidriche.
Qui l’unica
surreale distrazione
sta nella
possibilità
di pagare
l’inventiva
di un fotografo
da polaroid
che vi può
immortalare
con in mano
un kalashnikov.
Infine, visti
in azione
e ascoltati
gli operai
degli altiforni
per l’acciaio
di Liaoning,
Cina, l’epilogo
a Duisburg-Meiderich,
Germania,
dove invece
la desueta
struttura
siderurgica
è stata
trasformata
in parco con
illuminazione
policroma
realizzata
da un artista
inglese. Dalla
pellicola
(la prima
del regista
Michael Glawogger
nelle sale
italiane)
emerge un
ambiguo contrasto
di fondo tra
una partecipe
ricerca dell’effetto
alienazione
e il distacco
di uno sguardo
tendente all’estetizzante.
L’autore
ottiene però
il suo scopo
- in una sorta
di ballata
sulla dignità
(questa sì
inesistente)
- con l’opprimente
soffermarsi
sulle condizioni
da incubo
in cui certi
uomini sono
costretti
ad abbrutirsi
per tirare
avanti, e
arrivano a
sintetizzare
l’impressionante
formula dell’“entusiasmo
della sopravvivenza”.
(di Federico
Raponi )
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death"! |
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