questa caratura
poi ne viene
ripagato,
in modo travolgente
e sublime.
Whisky è
la storia
di Jacobo,
un piccolo
imprenditore
ebreo di Montevideo,
e della sua
capoperaia
Marta, che
accetta di
fingere di
essere sua
moglie in
occasione
della venuta
in città
del di lui
fratello Herman.
Jacobo è
burbero e
taciturno,
tanto che
i rapporti
con Marta
non vanno
mai oltre
uno scarno
ma rispettoso
rapporto di
lavoro. Lei
è una
donna di mezz’età
triste ed
abitudinaria
che si congeda
ripetendo
ossessivamente:
“A domani,
se Dio vuole”.
L’arrivo
di Herman,
decisamente
più
vivace e intraprendente
di Jacobo,
dà
una scossa
alle loro
vite. I tre
faranno un
viaggio nella
località
in cui i due
fratelli si
recavano da
bambini per
le vacanze
e dovranno
fare i conti
con la propria
solitudine,
col proprio
razionalismo,
con sentimenti
inaspettati.
La ‘recita’
del finto
matrimonio
porterà
a galla emozioni
e comportamenti
palpitanti
nel loro essere
autentici:
il vuoto si
riempirà
di senso fino
a produrre
una rottura
inaspettata,
un cambiamento
profondo che
rimarrà
scolpito nella
vita dei protagonisti.
Un film come
questo ha
forse bisogno
di qualche
parola in
più
per aiutare
lo spettatore
a decifrare
il linguaggio
filmico. Al
centro del
film ci sono
la difficoltà
di comunicare,
il senso frustrante
di una solitudine
che attanaglia,
della monotonia
lugubre della
ripetitività.
I toni spenti
(prevale la
luce interna
artificiale
e gli esterni
sono spesso
attraversati
da un freddo
sole invernale)
e le tinte
della scenografia
tendenti al
verdognolo/rosso
mattone non
fanno altro
che esaltare
questi temi.
Esiste inoltre
una dialettica
movimento/staticità
molto approfondita:
i personaggi
non fanno
che spostarsi,
muoversi,
vagare ma
la sensazione
che se ne
ricava è
di un ritorno
circolare
nello stesso
punto, un
vagabondaggio
senza meta
spesso lento
e faticoso.
È chiaro
come in quest’atmosfera
ogni piccolo
sussulto,
ogni sorriso,
qualsiasi
evento che
crei uno scarto
dalla normalità
assuma connotati
di grandiosità
che altrimenti
non avrebbe.
Ecco perché
i primi piani
in questo
film sono
così
struggenti,
proprio perché
usati con
parsimonia,
di modo che
questo procedere
per accenni
e piccoli
gesti sia
funzionale
alla sottolineatura
di sentimenti
fiochi, di
movimenti
minimi che
si caricano
di valenze
emozionali
nuove che
sanno di autentico
fin nel midollo.
I ricordi
dell’infanzia
(sia quelli
di Herman
che quelli
di Marta)
fungono da
contraltare
al cinismo
dell’età
adulta, come
se un mondo
di innocenza
ogni tanto
si affacciasse
dal di dentro
e li ricollegasse
dolcemente
ad una parte
di sé
sopita ma
ancora viva.
Lo stile di
questi due
registi, dunque,
è ricco
e sapiente
(nonostante
la giovane
età)
tanto che
più
di un osservatore
li ha voluti
accostare
al grande
cineasta finlandese
Aki Kaurismaki.
È fin
troppo ovvio
dire che il
loro cinema
va ben oltre
le caratteristiche
esposte in
questa breve
critica e
auspichiamo
che si inizi
un serio lavoro
di approfondimento
su questi
due nuovi
autori che
fanno ben
sperare per
le sorti del
cinema sudamericano.
Nel frattempo
sarebbe già
molto che
qualcuno decidesse
di evitare
per una volta
la pura evasione
fine a se
stessa e scegliesse
un film impegnativo
ma che rimane
indelebile
per la sua
inusitata
intensità.
N.B. “Whisky”
non c’entra
niente con
il superalcolico;
è come
dire “cheese”,
un modo per
indurre un
sorriso sforzato
quando si
viene fotografati.
(di Marco
Santello
)