WHISKY
 

whisky - recensione

 
Un piccolo miracolo è accaduto. Due giovani registi uruguayani (Juan Pablo Rebella e Pablo Stoll) al loro secondo lungometraggio danno vita ad un piccolo straordinario gioiello della settima arte. E succede che il film sia distribuito in Italia da una piccola casa di produzione – la Kitchen Film – che proprio con Whisky inaugura la sua attività di diffusione nelle sale di un prodotto esterno. Infine succede che un giovane critico appassionato di cinema archeologico decida di usare l’appellativo di “capolavoro” per un film finito di girare poco più di 2 anni fa’, ma che in coscienza ritiene dovrebbe entrare nel Gotha dei Grandi Film. Perché riuscire a vedere un’opera ispirata ed emozionante come Whisky è un’esperienza impagabile per chi ama il cinema. Macchina fissa, campi lunghi, il silenzio che prevale sulla parola, pro-  
 
fonda cura per la composizione dell’inquadratura: un fare film che piace tanto a noi snob del cinema ma che spesso non trova abbastanza spettatori. Invece questo film, pur sicuramente “d’essai”, dovrebbe essere visto da chiunque ama l’arte, da chiunque vada in una sala cinematografica anche per conoscere un po’ più se stesso e il mondo. Perché chi decide di concedere le proprie attenzioni a un’opera di  
questa caratura poi ne viene ripagato, in modo travolgente e sublime. Whisky è la storia di Jacobo, un piccolo imprenditore ebreo di Montevideo, e della sua capoperaia Marta, che accetta di fingere di essere sua moglie in occasione della venuta in città del di lui fratello Herman. Jacobo è burbero e taciturno, tanto che i rapporti con Marta non vanno mai oltre uno scarno ma rispettoso rapporto di lavoro. Lei è una donna di mezz’età triste ed abitudinaria che si congeda ripetendo ossessivamente: “A domani, se Dio vuole”. L’arrivo di Herman, decisamente più vivace e intraprendente di Jacobo, dà una scossa alle loro vite. I tre faranno un viaggio nella località in cui i due fratelli si recavano da bambini per le vacanze e dovranno fare i conti con la propria solitudine, col proprio razionalismo, con sentimenti inaspettati. La ‘recita’ del finto matrimonio porterà a galla emozioni e comportamenti palpitanti nel loro essere autentici: il vuoto si riempirà di senso fino a produrre una rottura inaspettata, un cambiamento profondo che rimarrà scolpito nella vita dei protagonisti. Un film come questo ha forse bisogno di qualche parola in più per aiutare lo spettatore a decifrare il linguaggio filmico. Al centro del film ci sono la difficoltà di comunicare, il senso frustrante di una solitudine che attanaglia, della monotonia lugubre della ripetitività. I toni spenti (prevale la luce interna artificiale e gli esterni sono spesso attraversati da un freddo sole invernale) e le tinte della scenografia tendenti al verdognolo/rosso mattone non fanno altro che esaltare questi temi. Esiste inoltre una dialettica movimento/staticità molto approfondita: i personaggi non fanno che spostarsi, muoversi, vagare ma la sensazione che se ne ricava è di un ritorno circolare nello stesso punto, un vagabondaggio senza meta spesso lento e faticoso. È chiaro come in quest’atmosfera ogni piccolo sussulto, ogni sorriso, qualsiasi evento che crei uno scarto dalla normalità assuma connotati di grandiosità che altrimenti non avrebbe. Ecco perché i primi piani in questo film sono così struggenti, proprio perché usati con parsimonia, di modo che questo procedere per accenni e piccoli gesti sia funzionale alla sottolineatura di sentimenti fiochi, di movimenti minimi che si caricano di valenze emozionali nuove che sanno di autentico fin nel midollo. I ricordi dell’infanzia (sia quelli di Herman che quelli di Marta) fungono da contraltare al cinismo dell’età adulta, come se un mondo di innocenza ogni tanto si affacciasse dal di dentro e li ricollegasse dolcemente ad una parte di sé sopita ma ancora viva. Lo stile di questi due registi, dunque, è ricco e sapiente (nonostante la giovane età) tanto che più di un osservatore li ha voluti accostare al grande cineasta finlandese Aki Kaurismaki. È fin troppo ovvio dire che il loro cinema va ben oltre le caratteristiche esposte in questa breve critica e auspichiamo che si inizi un serio lavoro di approfondimento su questi due nuovi autori che fanno ben sperare per le sorti del cinema sudamericano. Nel frattempo sarebbe già molto che qualcuno decidesse di evitare per una volta la pura evasione fine a se stessa e scegliesse un film impegnativo ma che rimane indelebile per la sua inusitata intensità.

N.B. “Whisky” non c’entra niente con il superalcolico; è come dire “cheese”, un modo per indurre un sorriso sforzato quando si viene fotografati.

(di Marco Santello )

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