WATER
 

water recensione

 
Dopo averci mostrato l’amore saffico tra due donne di diversa estrazione sociale nella India contemporanea, la regista indiana Deepa Meheta continua, cinematograficamente, la sua personalissima trilogia degli elementi cardine della cultura d’origine: acqua, terra e fuoco. Ma se l’intento personale risulta apprezzabile, scialbo e inconsistente è invece il risultato filmico. Nell’India del 1939, si intrecciano le storie di una ragazzina di otto anni e di una vedova indù innamorata di un fervente idealista sostenitore dei precetti di Gandhi. Tra preghiere e riti nel Gange, la storia si concluderà in maniera insolita. Non sveliamo il finale di questa storia tutta al femminile, forse troppo femminile per poter effettivamente piacere e per poter catturare l’attenzione. Film filosofico, ma fatto di quella filosofia spicciola, che  
 
può essere tranquillamente capita da tutti i neofiti della Commewealth letterature, ovvero quella di Anita Desay, Kazuko Ishiguro e Salman Rushdy. Troppo curry, troppo didascalismo, troppa pagina scritta da teorici come Spivak e i subalterni, dietro ad una elegante ma banale messa in scena cinematografica, che nulla toglie e nulla mette all’immagine da cartolina di La Chapelle che noi occidentali abbiamo. Viene su-  
bito in mente il paragone con un'altra indiana doc, Mira Nair, furba confezionatrice di globalizzanti apologhi morali e folkloristici. Meglio lei, tutto sommato che la Meheta, dal momento che non si perde in disquisizioni inutili e sa confezionare prodottini esportabili, giusti e tagliati per la nomination all’Oscar o al premio da Festival, senza nerbo e senza fuoco. Rimangono di positivo, in questo Water, solo la tecnicità. Ovvero costumi, fotografia e scenografia, il resto puro guardarobario già visto.

(di Gabriele Marcello )

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