VIAGGIO ALLA MECCA
 

viaggio alla mecca - recensione

 
Milano, Belgrado, Sofia, Istanbul, Damasco sono le tappe citate di “viaggio alla Mecca”, Leone del Futuro a Venezia (premio Opera Prima “Luigi De Laurentiis”). Nato in Marocco, arrivato in Francia a tre anni, il regista autodidatta Ismael Ferroukhi dirige anche per la televisione ed è sceneggiatore; il primo corto che ha firmato vinse a Cannes mentre quest’ultima opera rappresenta il suo esordio nel lungometraggio. Ispirato nell’infanzia dal pellegrinaggio del padre, egli aveva in mente il progetto cinematografico da un decennio. Nonostante la scarsa disponibilità di mezzi e i molti ostacoli (la guerra in Iraq, il coprifuoco in Serbia dopo l’assassinio del primo ministro, le difficoltà alle frontiere turca e bulgara, i permessi per le riprese all’interno della Moschea Blu) è riuscito a realizzare il primo film girato alla Mecca. La partenza  
 
è da una indefinita - quindi universale - zona urbana francese. Un figlio appena maggiorenne, più integrato nella cultura europea, suo malgrado deve accompagnare l’anziano padre alla Mecca. Divisi da contrasti non solo generazionali. “Privi di ogni punto di riferimento esterno”, spiega Farroukhi, “sono costretti a rivolgersi l’uno all’altro, avvicinandosi gradualmente”. All’inizio il ragazzo funge da "me-  
diatore” nei paesi attraversati, ma nell’approssimarsi della mèta, quando ad esempio la lingua diventa l’arabo (per lui sconosciuta), prova estraneità mentre il genitore si ritrova a suo agio. Il mezzo è una vecchia automobile (“salendo al cielo l’acqua dell’oceano diventa dolce”, dice nel film il padre. “Per questo meglio a piedi che in automobile, in automobile che in nave, in nave che in aereo”); si tratta infatti di un percorso anche personale in cui, secondo il regista, per lui “è essenziale soffrire fisicamente le difficoltà legate al viaggio”. Il pellegrinaggio (hajj) è il 5° pilastro dell’Islam (oltre a professione di fede, le cinque preghiere quotidiane, il digiuno del Ramadan, l’elemosina), e va fatto almeno una volta nella vita per purificarsi. “Ho sentito un’energia molto forte, spirituale”, racconta ancora il cineasta, non religioso. ”Una massa di persone in cui scompaiono le differenze, ricchi e poveri vestiti uguali. Il film mostra quello che si può provare lì, effettivamente è un luogo virtuale dell’anima, il pretesto per un viaggio interiore. Reda (il giovane protagonista, ndr) va incontro a se stesso”. Evitando tentazioni da cartolina, Ferroukhi si concentra sugli sviluppi di una interazione forzata che porta i due protagonisti (e di riflesso il pubblico) a capirsi un po’ meglio.

(di Federico Raponi )

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