UNA COSA CHIAMATA FELICITA'
 

- recensione -

 
C’è ben poco di felice nell’universo che gravita attorno alla dolce e dimessa Monika (Tatiana Vilhelmova). Il suo universo è uno stabile di tipica architettura comunista, un casermone di una decina di piani in cui abitava il suo ex ragazzo, Tonik (Pavel Liska), ora trasferitosi nel casolare di famiglia con la zia, e in cui abita la sensuale Dasha (Anna Geislerova), giovane donna squilibrata, ragazza madre di due bambini e in attesa di un terzo da un piccolo borghese in crisi matrimoniale. Perderà dignità, la casa e la libertà la bella Dasha, vittima delle sue follie verrà rinchiusa in un ospedale psichiatrico. L’altruista Monika si assumerà la responsabilità dei suoi due bambini, per evitargli separazioni ulteriori e istituti. E forse per riempire il suo stesso vuoto. Rinuncerà al suo viaggio in America, per ricongiungersi all’uomo a cui si è pro-  
 
messa. Ma al quale forse, non vuole mantenersi. La disapprovazione di chi le sta accanto, l’egoismo di altri la porteranno a dividere il casolare con il suo primo amore Tonik. Vivranno in una sorta di famiglia provvisoria di fatto, così come la loro precaria felicità. A cui il lieto fine è forse precluso o solo (molto) rimandato. Bohdan Slama, premiato a San Sebastian e Viareggio, regista e sceneggiatore, sembra un fratello mi-  
nore, più per esperienza che per talento, dei fratelli Dardenne. La sua umanità dolente e difficile non è mai accondiscendente allo spettatore, è dura pur nelle sue morbidezze. Nei caratteri, nei lineamenti dei personaggi e della narrazione. La stessa Monika, eroina senza macchia, cerca forse nell’aiuto agli altri di riempire una vita vuota, spesso sostituendosi a questi stessi. Tonik usa come guscio la sua ostinazione candida e idealista, nell’amore e nella vita. Dasha è un personaggio patetico e disperato, dal bisogno d’amore patologico, perché sempre negato. Una cosa chiamata felicità è quello che cercano e a cui sacrificano molto, dall’orgoglio alle opportunità per finire alla sanità mentale. Una cosa chiamata felicità è tutto ciò che vorrebbero e mai trovano, ne è loro concesso. Meschinità e tenere sensibilità si mischiano in un ritmo lento, forse fin troppo indugiante. In una regia attenta, abile, ma spesso poco coraggiosa. Ma c’è di che essere ottimisti per il futuro di questo cineasta ceco che ci offre una storia semplice e struggente con capacità non comuni. Un film forse ostico (sia lodata la Bim per le sue scelte spesso coraggiose al limite dell’incoscienza) ma che per questo merita di essere guardato e apprezzato. E criticato perché il suo autore possa continuare nel solco dei suoi maestri, forse anche indiretti e inconsci.

(di Boris Sollazzo )

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