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recensione un alibi perfetto
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"Ciò che è bello non è nuovo, ciò che è nuovo non è bello". Il crudele responso che il compositore Gioacchino Rossini (in barba alla pedagogia montessoriana) diede ad un giovane allievo, dopo aver letto lo spartito di una sua musica, si adatta anche alla diciannovesima pellicola del regista newyorkese Peter Hyams, remake di un film di Fritz Lang del 1956. Nulla da dire sul meccanismo narrativo di "Un alibi perfetto": il gioco ad incastri tutto sommato riesce e a tratti diverte. Ma questo, a parte qualche licenza di Hyams (che è anche sceneggiatore e direttore della fotografia del suo nuovo lavoro), era già nella storia scritta da Douglas Morrow e filmata da Lang, che nutriva anche il nobile intento (che nel nuovo film manca) di denunciare la fallibilità di molte condanne a morte. Il giovane giornalista C. J. Nicholas (un anonimo |
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Jesse Metcalfe, troppo "bambolotto" per dare spessore al suo personaggio) vuole incastrare il procuratore distrettuale Martin Hunter, interpretato da Michael Douglas, che timbra il cartellino e offre una prova attoriale piena di mestiere, ma povera di ispirazione. Il sospetto è che "l'infernale Hunter" abbia falsificato prove indiziarie per vincere i suoi ultimi diciassette processi e potersi candidare a governatore della |
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Louisiana. C. J. ha un solo modo per dimostrarlo: fingersi omicida di un delitto, andare alla sbarra e aspettare che il procuratore costruisca ad arte la prova indiziaria per condannarlo. Il piano di C. J. e dell'amico Corey Finley (Joel David Moore) scatta alla notizia dell'uccisione di una prostituta di colore, Ruth Owens. C. J. e Corey comprano la stessa tuta dell'assassino, lo stesso coltello a serramanico, lo stesso passamontagna, le stesse scarpe italiane fuori moda. Conservano gli scontrini e filmano gli acquisti per poter dimostrare, una volta in tribunale, la prova della manipolazione. Non resta che farsi arrestare per eccesso di velocità e guida in stato di ebrezza e il meccanismo della trappola è innescato: C. J. finisce sotto processo per omicidio. Il procuratore Hunter e il tenente Anthony Merchant (Lawrence P. Beron) fiutano l'inganno, ma confidano di poter ribaltare in un secondo momento le sorti della partita e spargono il sangue della vittima sui pantaloni di C. J. A questo punto Corey dovrebbe calare il fatidico "asso pigliatutto" e portare in aula il dvd che scagiona C. J., mostrando che gli acquisti sono avvenuti tutti dopo l'omicidio. Ma il dvd viene trafugato dalla casa di Corey e l'ultima copia esistente prende fuoco insieme al giovane cameraman, ucciso da Merchant dopo un inseguimento in auto. Per C. J. si aprono le porte del braccio della morte. Ma Ella Farrell (Amber Tamblyn), la giovane assistente di Hunter, innamoratasi di C. J., indaga e scopre l'effettiva falsificazione da parte del suo datore di lavoro delle prove indiziarie di precedenti processi. Il procuratore finisce in manette, la sua rispettabilità distrutta. Ma non era l'unico a voler sembrare ciò che non era: Ella lo scoprirà a sue spese e alla fine manderà (letteralmente) a quel paese il suo nuovo fidanzato C. J. Se la buona educazione degli spettatori non fosse superiore anche a questa ennesima caduta di stile del film, l'ultima battuta rischierebbe di essere rimandata al mittente. E qualche motivo per abbandonarsi al turpiloquio il pubblico lo avrebbe pure: sottoposto a un'ora e tre quarti di mediocrità patinata. A una fotografia sciatta che non riesce a costruire un'atmosfera autenticamente "noir" (come invece il genere le imporrebbe). Ad un Douglas immobilizzato da un ruolo, quello dell'avvocato senza scrupoli, troppo prevedibile per permettere al suo talento di sprigionare lampi di creatività. A giovani attori volenterosi, ma incapaci di reggere credibilmente il timone del film. Che infatti, dopo qualche buona premessa, inesorabilmente, naufraga.
(di Daniele Piccini)
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