TUTTA COLPA DI GIUDA
 
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recensione tutta colpa di giuda

 
Come "The Passion" di Mel Gibson, anche "Tutta colpa di Giuda", nuova pellicola di Davide Ferrario, sceglie il periodo pasquale per uscire nelle sale cinematografiche. Come il suo precedente hollywoodiano, anche il film di Ferrario non mancherà di far parlare di sé. Intanto perché è un bel film, girato con intelligenza e versatilità tecnica, e montato sapientemente («è il montaggio il momento in cui si "fa" davvero il film», parola di Davide Ferrario) amalgamando scene girate con la sofisticata telecamera del Gibson di Apocalypto, senza rinunciare alla spontaneità delle riprese con camera digitale amatoriale. E poi perché il racconto del film (guai a parlare di sceneggiatura con Ferrario) incrocia la storia della passione di Cristo rivisitandola radicalmente. Ma andiamo con ordine. Nel carcere di Torino entra per un  
 
progetto ministeriale Irena Mirkovic (una Kasia Smutniak in cui competono, ad armi pari, bellezza e intelligenza interpretativa), una regista dell'ex Jugoslavia fuggita da Belgrado per scampare ai bombardamenti della Nato. Il suo compito è quello di coinvolgere in un progetto teatrale i detenuti che, a proposito, sono "veri". Il film infatti è stato effettivamente girato nella Casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino   recensione tutta colpa di giuda
con attori-detenuti della sezione VI, blocco A (scelta che ricorda quella pasoliniana di selezionare gli attori per il suo Vangelo secondo Matteo tra i contadini della Basilicata). Con la benedizione di Suor Bonaria (un simpatico cameo di Luciana Littizzetto) don Iridio (Gianluca Gobbi), il cappellano del carcere, preme affinché si metta in scena la Passione di Cristo e che la prima sia nel giorno di Venerdì Santo (l'uscita del film di Ferrario è proprio Venerdì Santo, 10 aprile). Irena è spiazzata: è atea, non ha mai letto i Vangeli e poi ama il "teatro di ricerca". Eppure, acquistata un'edizione economica del nuovo Testamento, inizia a leggere, a farsi un'idea della figura di Cristo, conosce la sua esperienza terrena e la sua solitudine. Improvvisamente, la sua vita inizia a cambiare: intanto lascia il fidanzato Cristiano, un Cristiano Godano decisamente più a suo agio come voce dei Marlene Kuntz - che firmano la splendida colonna sonora insieme a Cecco Signa - piuttosto che davanti alla cinepresa. Si trasferisce negli alloggi per i dipendenti del carcere e si avvicina al direttore Libero Tarsitano (interpretato da Fabio Troiano), fino ad innamorarsene. Al momento della preparazione del cast per lo spettacolo, nessuno dei detenuti-attori vuole interpretare la parte di Giuda, un "infame" che ha tradito e ha mandato a processo un amico. Come fare? Irena ha un'idea. Insoddisfatta della tragica fine di Gesù, riscrive la sua storia come quella di un uomo che, proprio come tutti gli uomini, preferisce la libertà, la felicità, il ballo e il canto ai tradimenti, alla sofferenza e al sacrificio della Croce. Ma messe a punto le ultime scene, arriva l'indulto del governo Prodi (luglio 2006) a "liberare tutti" e a disperdere l'improvvisata compagnia. Dello spettacolo non se ne fa più niente, anche se in fondo le scene fondamentali - almeno per lo spettatore che conta, quello del film - sono già state rappresentate. C'è giusto il tempo di salutare Irena, proprio come Cristo, con un'ultima cena piena di malinconia. Nella rilettura della storia di Gesù pesa senz'altro l'ateismo dichiarato di Ferrario e il film è costretto ad affrontare un tema complesso senza dimostrare di avere gli strumenti filosofici per farlo. Laddove per esempio il regista suggerisce che la sofferenza possa essere esclusa dal mondo semplicemente ignorando il destino del "chicco di grano", che Cristo stesso ha subito [«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24)]. Come se il tradimento e la violenza che si subiscono dagli altri fossero qualcosa che si sceglie. Come se la Croce e le croci fossero un destino evitabile. Come se, insomma, la morte di Cristo non fosse un fatto storico che mostra la radicale coappartenza del dolore all'esistenza umana, ma un racconto di fantasia che può essere riscritto e reso meno "scandaloso" (in senso kierkegaardiano), pensando in questo modo di aver migliorato, con un colpo di penna, le sorti dell'umanità.

(di Daniele Piccini)


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