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recensione torno a vivere da solo
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La parola d'ordine 'si riallaccia idealmente', è un modo pulito per promuovere quei nuovi film che, per colpire il pubblico, per darsi arie di originalità in un panorama ormai saturo, utilizzano la carta del "vediamo anni dopo come se la cavano i nostri eroi", ma che in fondo con i predecessori di venti, trent'anni fa, hanno ben poco in comune. Se non la necessità di riempire le sale. Forse neanche quella, forse peccano proprio di un'umiltà, di un genuino divertimento che in itinere si è perso. Attenzione! Non si tratta solo di continuare un filone cinematografico che nella penisola trova sempre terreno fertile, si parla proprio del fingere di proporre vecchie glorie, spolverate, cambiate nei costumi, modificate nei linguaggi e trasferirle sul grande schermo con duplice guadagno: da una parte gli appassionati della facile risata |
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natalizia e dall'altra i nostalgici di un gusto particolare di far commedia che, ahimè, si respira solo nei volti di quei protagonisti che ne rappresentano le icone. Piacere, Jerry Calà. Lo stesso attore/regista che dopo un silenzio di qualche anno, il più lungo di tutta la carriera, tornò sul grande schermo con "Vita smeralda" nel 2006, allaccio ideale appunto con "Sapore di mare" degli '80. La stessa regola vale per l'ultimo |
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nato, fratello maggiore di una delle pellicole più imitate, più trasmesse e longeve che mai, nonostante i trentasei anni di nuove proposte alle spalle: "Vado a vivere da solo". Che cosa lega i due film? Nulla, se non il nome del protagonista, Giacomo. Bel pretesto. La sinossi è lineare, facilmente metabolizzabile: un marito, un padre, inascoltato; una moglie in cerca di nuovi stimoli, due problematici figli adolescenti; una suocera invadente; la separazione; i maldestri tentativi di una nuova vita da single. Un copione già visto, soprattutto nella commedia. Anche il fiacco tentativo di ancorare la vicenda a un substrato di tematiche attuali, come il divorzio e le famiglie allargate che ne risultano, non solo è un chiaro cavillo ma si risolve con una velocità innaturale, senza quel gusto un po' amaro che ci si aspetterebbe e che le commedie di oggi hanno perso. Se però si vuole giudicare la pellicola dalle risate della platea, il discorso cambia leggermente, a patto di sorvolare, esempio, sulle interpretazioni più che trascurabili delle due Henger, rispettivamente Jessica (Eva Henger) e Chiara (Mercedes Henger), che minano le già fragili fondamenta. Gli scoppi di risa - pochi, ma che garantiscono però l'obiettivo che il film si prefigge - arrivano esclusivamente dal trio Calà-Villaggio-Iacchetti. Questi devono molto non al ruolo che interpretano, ma a ciò che rappresentano al di là dei 106' di pellicola. Le migliori punte di acume sarcastico arrivano soprattutto da Leo (Paolo Villaggio), lo stanco padre di Giacomo. Nel merito delle figure che reggono in piedi l'opera poi, una piccola parentesi può essere aperta in favore di Nico (Don Johnson) che, al di là delle sparute apparizioni, doppiato in milanese fa davvero sorridere. Qualcuno un giorno mi disse che l'uomo in grado di fondare la propria carriera cinematografica sulla rosa di possibilità che la parola 'libidine' è in grado di offrire, deve essere o un genio o semplicemente un folle al quale il pubblico da' ascolto. Un pubblico affezionatissimo a quanto pare, da anni sempre più deluso.
(di Marco Trani )
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