TIFFANY E I TRE BRIGANTI
 
locandina tiffany e i tre briganti

recensione tiffany e i tre briganti

 
In una notte piovosa, una carrozza scalpiccia veloce attraverso il bosco, diretta all’orfanotrofio dove la Maestra Cattiva attende l’arrivo di una nuova bambina, Tiffany. Ma sulla sua strada irrompono tre briganti che, non trovando oro, prendono con loro la piccola, convinti che sia la figlia di un ricco maraja. Comincia così questa favola in piena regola dal titolo “Tiffany e i Tre Briganti”, film d’animazione, diretto da Hayo Freitag, dolce e poetico, tratto dal classico per bambini “I Tre Briganti”, di Tomi Ungerer (Nord-Sud edizioni, per la Salani Editore). E proprio i più piccoli sono il pubblico (pre)scelto di questa pellicola, primo lungometraggio ispirato da un’opera del noto autore e illustratore. I giochi infantili e le filastrocche, i colori scuri e decisi per ‘disegnare’ le cose malvagie (il castello dell’orfanotrofio, il paesaggio notturno,  
 
la pioggia di barbabietole) e quelli pastello dai contorni più ariosi e indefiniti per la bambina e i suoi scarabocchi, l’incanto e la magia, i ‘cattivi’ che imparano dai ‘buoni’, e i ‘cattivissimi’, che non imparano e basta: tutti topoi fiabeschi riproposti e rivitalizzati a partire dal libro a fumetti di Ungerer. Allenati negli ultimi anni da film d’animazione sempre più ‘adulti’, perché pregni di una realtà quanto mai attuale – quindi con   recensione tiffany e i tre briganti
tutte le brutture e il disincanto del caso – e infarciti di citazioni e rimandi spesso sottili, questo piccolo progetto ha il sapore di qualcosa di ‘antico’. Durante i suoi ottanta minuti è come se ci si immergesse in un vecchio e polveroso libro di favole, dai disegni semplici, lineari, concisi, così come semplice, lineare e concisa è la storia: ma dietro una facciata fintamente fuori moda, si cela un messaggio valido oggi come allora (il libro è del 1961), la cui modernità è stata comunque colta e giustamente adattata ai giorni nostri. Rimane comunque un film per i più piccoli, certo, ma è giusto che, di tanto in tanto, si pensi ancora a loro. Solo, a loro.


(di Giulia Mazza )


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