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La prima riflessione
su Tideland è,
paradossalmente, una
considerazione pre-visiva.
Basta leggerne la
trama per ottenere
la più palese
delle conferme: la
tradizione letteraria
è un bacino
di ispirazioni a cui
Terry Gilliam non
sembra voler rinunciare.
In passato, furono
Orwell per “Brazil”,
Thompson per “Paura
e delirio”,
Cervantes per lo sfortunato
(e mai realizzato,
se si eslude il girato
che ne documenta le
sventure) “Lost
in La Mancha”,
i Grimm per l’omonimo
film di recente produzione.
Panorama eterogeneo,
storicamente svincolato
da denominatori comuni,
ma attraversato da
un ideale fil rouge:
l’esperienza
visionaria, intesa
come ottica sul mondo,
lente anamorfica che
distorce (e interpreta)
la realtà.
Non sorprende quindi
che la piccola protagonista
di Tideland, durante
le sue peripezie,
legga ripetutamente
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frammenti
di “Alice
nel
paese
delle
meraviglie”.
Opera
concettualmente
ipertrofica
e densa
di significati,
manifesto
programmatico
di un
“irrealismo”
folle
e straordinario,
Alice
fa pendant
con
quel
magma
allucinato
in cui
Gilliam
si muove,
sin
dagli
esordi,
con
agiata
disinvoltura.
Per
il regista
americano,
la novella
Alice
è
la piccola
Jeliza-Rose,
costretta
a trasferirsi
in campagna
dopo
l’overdose
della
madre.
Qui
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anche l’inetto
padre va incontro
alla stessa
fine, lasciando
sola Jelize-Rose.
La bambina
trova rifugio
nella propria
immaginazione:
sognante,
stralunata,
che assume
progressivamente
la forma di
un circo delirante.
Costretta,
tuttavia,
a misurarsi
con la realtà.
Gilliam attualizza
il racconto
di Carroll
appellandosi
a un immaginario
consolidato:
si appropria
della poetica
macabra di
Svankmajer
e dei Quay;
mette in scena
animali parlanti
e una fauna
di personaggi
freak, flippati,
caricaturali;
fluttua tra
derive surrealiste
e atmosfere
oniriche che
si intrecciano
con il reale
fino a creare
con esso un
tutto indissolubile.
Non è
solo il profilmico
a subire una
deformazione.
Anche la regia
sceglie costantemente
inquadrature
oblique, sghembe,
asimmetriche,
adottando
movimenti
di macchina
sclerotici
e sfasati.
La sensazione
è quella
di una favola
nera, lontana
anni luce
dalla malinconia
burtoniana,
e pervasa
da un’angoscia
radicata,
in cui la
comicità
assume tinte
grottesche
e in cui si
respira un
profondo senso
di morte (la
tassidermia,
i corpi mummificati).
Un’altalena
visivamente
frastornante,
satura, ai
limiti della
ridondanza.
Ma che trova
nei suoi (presunti)
eccessi i
fondamenti
di un innegabile
fascino.
(recensione
di Lorenzo
Donghi )
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